A fronte dell’ennesimo richiamo a innovare (Roggero, Fujitsu) per ritrovare l’efficienza persa, le risposte si possono già trovare: le dà una parte della Pa. E rinasce un desiderio di rifare “centro”.
In tema di innovazione l’Italia presenta sacche di arretratezza molto forti a fronte di esempi di eccellenza sparsi qua e là sul territorio.
Purtroppo il gap con gli altri paesi industrializzati non si riduce, con drammatici effetti negativi sulla capacità competitiva dell’intero sistema.
Punto critico è la pubblica amministrazione, che nell’ultimo decennio ha raddoppiato gli sforzi per concretizzare l’approdo al digitale.
Ma le cose, pur in presenza di investimenti significativi, non vanno tanto bene, ahinoi.
Un esempio per tutti: per innovare il comparto della giustizia si sono spesi in pochi anni 1,8 miliardi di euro, senza peraltro ottenere vantaggi tangibili.
Le cause? Sono molteplici, innanzitutto la debolezza dell’approccio all’innovazione, riassumibile nel (solito, per il nostro paese) “ognuno va per la sua strada”.
Come si può rilanciare? Con una nuova governance per l’innovazione, come recitava il titolo di un convegno svoltosi a Milano, organizzato da School of Management del Politecnico e Fujitsu Technology Solutions Italia, a cui sono intervenuti aziende, enti pubblici, politici.
Preoccupato lo scenario presentato da Pierfilippo Roggero, Vp di Fujitsu Technology Solutions per Europa sud e occidente, nonché Ad della filiale italiana, che giudica insufficiente la crescita dell’1% del Pil (“su questa base non si cresce, si tira a campare”) e secondo il quale la perdità di competitività dell’Italia è anche un tema di innovazione, riscontrabile nell’assenza di recupero di efficienza.
Per Roggero le magagne del nostro paese sono tante, non ultimo la grave capacità di non sapere più attrarre capitali stranieri: il nostro non è più una paese per multinazionali (che pure portano soldi, tecnologie, occupazione), la loro presenza si riduce sempre più.
Meno burocrazia e più innovazione, dunque.
Che si “possa fare” ha cercato di dimostrarlo Alessandro Perego della School of Management, che, pur in un contesto caratterizzato da una forte domanda di nuovi servizi a fronte di altrettanti forti tagli delle risorse, ha raccontato le esperienze e i risultati ottenuti da alcune Pa nostrane in tre settori importanti: l’e-procurement, la sanità e la fatturazione elettronica.
Tutte presentano vantaggi sul fronte dei risparmi e di quello dell’incremento dell’efficienza.
Un esempio? La fatturazione elettronica potrebbe portare al paese (che “produce” 1,3 miliardi di fatture B2B ogni anno) benefici economici per 10 miliardi di euro l’anno, che diventerebbero 60 in caso di adozione estesa all’intero ciclo ordine-pagamento.
In pratica, valori compresi tra l’1 e il 4% del Pil. Ebbene, anche qui si arranca aspettando Godot, ovvero i decreti attuativi della legge che obbliga l’uso delle fattura elettronica nella Pa.
Nel frattempo, regioni particolarmente attive, come Emilia-Romagna, Toscana e Lazio, vanno avanti coi loro progetti digitali, partendo il più delle volte dall’ambito sanitario.
Sono esempi di eccellenza, però, perché per il resto le cifre nude e crude rivelano che 7 progetti su 10 falliscono.
Lo dice Giuliano Noci, responsabile scientifico progetti e-gov della School of management, che lamenta la mancanza della politica, l’erogazione di risorse finanziarie distribuite a pioggia, la poca chiarezza degli obiettivi, in pratica l’assenza totale di linee guida operative. E la solitudine degli enti. Non a caso, dove ci sono rapporti interistituzionali, condivisione e leadership chiare, i progetti hanno molte più chance di successo.
La politica si è incarnata in Giorgio Stracquadanio, parlamentare del Pdl, che ha gelato il convegno affermando che non è l’innovazione il tema principale al centro del cambiamento della Pa. Inutile fare i decreti sul tema, dice Stracquadanio, perché poi ci si trova poi di fronte al freno costituito da 8 mila e passa comuni, più province, regioni, enti.
La constatazione viene da sé: la Spagna (8mila comuni anch’essa) ha innovato la Pa, e funziona. Perché non dovrebbe farlo anche l’Italia? Perché, per esempio, non sfruttare le numerose best practice che pure esistono nel nostro paese? Perché non sfoltire il parco norme in tema di innovazione, il cui affollamento rappresenta non di rado un ostacolo, per privilegiarne di più snelle e mirate? Perché finalmente non implementare dappertutto la banda larga?
Tutte cose da fare, evidentemente, ma, tutti i relatori lo hanno ribadito, l’impegno più strenuo deve essere quello di eliminare l’eccessiva autonomia decisionale in fatto di innovazione, che ha portato a una estrema parcellizzazione, indicare chiari obiettivi condivisi, nel segno della centralizzazione e della responsabilizzazione.
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