Difendersi dalla contraffazione in un settore delicato come il tessile: il caso di Versace nel convegno di Sistema Moda Italia
La lotta alla contraffazione deve ampliare i suoi confini, tanto più in un settore, come la moda, particolarmente esposto alle attività illecite dei falsari. Il recente seminario organizzato da Sistema Moda Italia sulla proprietà industriale ha evidenziato le strategie che le nostre aziende possono adottare per ridurre i tentativi d’imitazione di aziende straniere concorrenti. L’esempio arriva da Versace, che proprio nell’ultimo anno ha ribaltato la sua politica di tutela, dalla cura (la difesa dei suoi interessi in sede giudiziaria) alla prevenzione, aumentando il controllo sull’intera filiera. Qui si annidano alcuni punti critici, come ha segnalato il presidente di Sistema Moda Italia, Michele Tronconi. Serve maggiore correttezza imprenditoriale su tutta la catena del made in Italy, dalla produzione alla vendita, passando per i vari fornitori.
Il cambio di rotta di Versace
Fino al 2009, Versace spendeva milioni di euro l’anno in cause legali per colpire i contraffattori. I risultati di questa strategia difensiva erano aleatori: nuove imprese continuavano a imitare il marchio italiano del lusso, innescando una spirale di copiature infinite, impossibile da fermare soltanto con gli avvocati. Così Versace ha deciso di proteggere i valori immateriali dell’azienda (marchio, disegni e modelli), coinvolgendo tutti i soggetti della filiera, con un duplice obiettivo: mantenere le redini del mercato e salvaguardare la fiducia dei suoi clienti. Il primo passo è stato una collaborazione diretta con le autorità doganali dei Paesi più critici, controllando la merce sospetta con la supervisione dell’ufficio legale interno. Tra gennaio e agosto 2010, ciò ha permesso di bloccare circa 270mila prodotti contraffatti, di cui oltre il 30% proveniente dal Sudafrica (solo il 7% dalla Cina). I capi d’abbigliamento erano il 60% della merce complessiva, ma si sono anche trovati articoli a marchio Versace mai realmente prodotti (per esempio, dei cosmetici). La rete dei punti vendita e dei licenziatari, infine, ha il compito di segnalare eventuali attività illecite, diventando un punto di riferimento nella verifica delle confezioni sospette.
Tolleranza zero
Il disegno di un marchio, protetto dalla contraffazione, può valere più di dieci capannoni industriali, come ha spiegato Mario Feltrin della Camera di commercio veneziana: le nostre aziende dovrebbero puntare di più sulla forza dei prodotti (che si esprime, appunto, attraverso il valore del marchio), per aumentare la loro competitività. Di solito, le banche guardano alle proprietà materiali, come capannoni e macchinari, per concedere o no un prestito; bisognerebbe convincerle del contrario: che sono i valori tutelati dalla proprietà intellettuale, dai brevetti al design, a garantire la sopravvivenza e la crescita di un’impresa sui mercati internazionali.
Il caso di Jesolo dello scorso giugno testimonia le contraddizioni del nostro Paese: una turista svizzera dovette pagare una sanzione di mille euro per aver acquistato un borsellino falso di Louis Vuitton e fu poi risarcita dai commercianti locali. Da un lato, afferma Feltrin, ci si lamenta per la perdita di competitività e posti di lavoro delle nostre imprese; dall’altro, manca la volontà di far applicare le leggi che vietano di acquistare merce copiata. C’è troppa ipocrisia: Feltrin propone invece una “tolleranza zero” verso i prodotti contraffatti, da abbinare a campagne informative (anche per i turisti che visitano il nostro Paese), illustrando, per esempio, che una falsa borsa Louis Vuitton può contenere elementi tossici come l’arsenico e il piombo, utilizzati dalle industrie tessili cinesi.