Le Pmi che hanno investito in tecnologia e digitalizzazione hanno saputo fronteggiare meglio la crisi
L’It italiana non è certo reduce da un periodo di grandissima salute, ma prova a ripartire puntando ancora una volta le sue carte sull’innovazione. Questo il succo della giornata di apertura della 47° edizione di Smau: la situazione di partenza è sempre la stessa, ovvero le imprese italiane utilizzano ancora la tecnologia in misura inferiore rispetto agli altri paesi europei, con conseguenze non da poco per l’intera economia nazionale. Inclemente è il raffronto con la Germania, leader non a caso della ripresa europea in questa fase di post recessione (Pil al +3,3% nel 2010): Berlino investe infatti il 3,4% del suo prodotto interno lordo in Information Technology, l’Italia appena l’1,9% ed è decisamente più indietro in tutta una serie di parametri quali penetrazione della banda larga, possesso dei pc, ecc.
La leadership dell’Italia
«Smau un tempo era la dimostrazione della leadership dell’Italia in questo settore – ha messo il dito nella piaga l’amministratore delegato di Fiera Milano Enrico Pazzali -. Ora dobbiamo ammettere che questa posizione di predominio è persa, il settore ha ancora qualche problema ma penso che l’Italia abbia tutte le carte in regola per tornare protagonista». Perlomeno in questa fase, ha sottolineato l’amministratore delegato di Smau, Pierantonio Macola, la parola innovazione non è più soltanto una formula vuota, ma anche i vertici aziendali dimostrano nei fatti di crederci sul serio.
Le imprese protagoniste dell’innovazione
Una dimostrazione arriva da una ricerca dell’Osservatorio Smau – School of Management del Politecnico di Milano, che ha analizzato le performance negli ultimi 5 anni delle oltre 100 imprese finaliste del Premio Innovazione Ict. Si tratta di aziende, prevalentemente di piccole e medie dimensioni, che hanno saputo innovare il proprio business attraverso le tecnologie digitali. I dati dimostrano come queste imprese siano riuscite a reagire bene alla crisi, continuando a crescere sia a livello di fatturato che di marginalità. Infatti, per il 40% delle società analizzate, il fatturato è cresciuto più del 10% in media all’anno. Per un’impresa su quattro, inoltre, il fatturato ha registrato un incremento di oltre il 20% annuo. A livello di marginalità, circa il 50% del campione ha aumentato l’Ebitda di oltre il 10%. Infine per un’impresa su tre l’Ebitda è cresciuto annualmente di oltre il 20% negli ultimi 5 anni.
Gli ingredienti anticrisi
Una seconda indagine del Politecnico su 80 medie imprese quotate (operanti soprattutto nei settori tipici del made in Italy come abbigliamento, alimentare, arredamento, calzaturiero e metalmeccanico) ha confermato il valore dell’innovazione come driver della ripresa: quasi il 70% delle aziende interpellate ha infatti aumentato il proprio fatturato nel primo semestre 2010 rispetto al primo semestre 2009. In un’impresa su tre tale incremento è stato superiore al 20%. L’analisi ha messo in evidenza quattro ingredienti comuni alla base della capacità di rispondere alla crisi: la capacità di cavalcare i mercati emergenti, il coraggio di approfittare della crisi per tagliare le inefficienze sedimentate nel tempo, una solida struttura finanziaria e, infine, l’innovazione, intesa non solo a livello di prodotti ma anche a livello di processi e tecnologie.
Una maggiore maturità informatica delle Pmi
In particolare su quest’ultimo punto le Pmi italiane (non solo quelle quotate) sembrano aver fatto sforzi importanti: rispetto al 2007 l’indice di maturità è salito da 40 a 47. In confronto a 3 anni fa sono infatti diminuite le imprese che non possiedono alcun gestionale (dal 12 al 9%), così com’è aumentato sensibilmente l’utilizzo di applicazioni di business intelligence. Un ulteriore passo in avanti dal punto di vista culturale è però indispensabile, come ha evidenziato David Bevilacqua, amministratore delegato di Cisco: «Bisogna uscire dall’idea di It come semplice costo: tanto per fare un esempio, in Italia i Cio (Chief information officer) rispondono ancora ai Cfo (Chief financial officer) e non, come nella maggior parte dei paesi occidentali, direttamente al Ceo».