È tempo di dare valore formale all’It in azienda

Ci hanno provato Aica, Aused e ClubTi dando voce a opinioni condivise in un Paese fatto di Pmi e di una leadership che non considera il fallimento parte della crescita.

Riuniti negli scorsi giorni in Assolombarda a parlar di eccellenza e innovazione, nell’evento confezionato a sei mani da Aica, Aused e ClubTi, l’accento è andato sulla valorizzazione delle tecnologie Ict e sul loro impatto sul business di imprese di qualsiasi dimensione e, con esse, dell’intero Sistema Paese.

Un esercizio pratico, volutamente circoscritto a uno specifico territorio, quello lombardo, dal quale ripartire “facendo massa” anche dal punto di vista associativo «rafforzando, cioè, una collaborazione già in essere ma che ora – come ribadito da Antonella Ferrari, presidente ClubTi di Milano – va strutturata anche con l’intento di attrarre nuovi interlocutori, nativi digitali in primis», chiamati ad abbattere l’età media degli associati.

L’accento di Roberto Bellini, socio Aica, di cui presiede la sezione meneghina, è anche «sulla recente approvazione della legge sulle associazioni non regolamentate e sulle quali ora ci si concentra perché vengano riconosciute» non senza «dar voce e produrre competenze al nostro interno altrimenti da ricercare altrove».

In animo di offrire una «proposta completa agli associati che non sia la replica di singoli apporti specifici» è anche Francesca Gatti, in rappresentanza di Aused, che al suo interno raccoglie gli utilizzatori dei sistemi e delle tecnologie dell’informazione.

Un invito congiunto, dunque, a ripartire dall’innovazione di prodotto/servizioutilizzabile” e non di prodotto “as is” a patto, per Bellini, «di saper distinguere le componenti necessarie per l’innovazione, comprensive di una parte relativa al prodotto, alle operation technology, all’It e al modello di business da applicare per comprendere se si è sostenibili sul mercato».
Qui, chi si occupa della parte di Information technology dev’essere in grado di far riconoscere il proprio peso in azienda «anche grazie alla costruzione di un’“intimità” tra chi gestisce l’It e la struttura organizzativa e il sistema decisionale formale che sottende a un’azienda».

Levata di scudi, a questo punto, per i Cio che, come ricorda Massimo Bollati, It, facility & security director, Tnt Post, paiono dover scusare a ogni piè sospinto la propria presenza in azienda, «quando l’It per prima dovrebbe, invece, entrare nella stanza dei bottoni e respirare l’aria della strategia e delle decisioni aziendali».

Non solo.

Per Andrea Provini, global Cio Information technology services, Bracco Imaging: «All’aumentare in azienda delle risorse per fare innovazione aumentano anche i vincoli per renderla esecutiva. Il ché pone la Pmi in un posizione di vantaggio rispetto alla media-grande impresa, considerato che al suo interno il contatto tra i tecnici e l’imprenditore che funge da decision maker risulta meno filtrato da ruoli politici intermedi e, quindi, più in grado di abilitare l’aspetto innovativo nell’azienda».

Qui, sempre per Provini, ai problemi dimensionali si risponde facendo network «e sentendosi Cio anche quando ti dicono che sei un It manager».

Questione di budget
Vero è che lo stanziamento di un budget ad hoc, tipico nella grande industria, ma ancora chimera nelle realtà di più ridotte dimensioni, «pone – secondo Massimo Dal Checco, general manager Terziario Innovativo di Assolombarda l’Information technology in una posizione di forza solo in quelle aziende che, stanziando un certo tipo di investimento, finiscono per riconoscere un valore anche formale all’It e all’innovazione che da essa ci si attende».

Esiste, poi, un problema di volume dei dati da gestire, «che cambia radicalmente a seconda delle dimensioni aziendali, senza dimenticare che, lato fornitore, ci si adegua ai budget della piccola impresa stanziati per soddisfare il proprio fabbisogno di informatica, anche se non non tutti hanno un budget adeguato ai propri bisogni tecnologici».

Concorda Cristina Bonino, direttore generale, Consoft Sistemi, per la quale «esistono sul mercato soluzioni gestionali e strumenti di Business intelligence e Content management del tutto adeguati, dal punto di vista economico, al mondo della piccola impresa, che non richiede ancora il livello di integrazione di quella grande».
Il punto, semmai, «è capire se le istituzioni possono supportarci nel fare più cultura affinché anche le aziende di più ridotte dimensioni adottino soluzioni informatiche che non possono rimanere appannaggio solo di pochi imprenditori illuminati. L’adozione di strumenti Ict innovativi da parte della Pubblica amministrazione potrebbe essere un primo passo in questa direzione».

Questione di skill e di cultura manageriale
Grandi tecnologi con scarse competenze in Scienze dell’informazione a discapito di una cultura più concettuale”. È questa la fotografia scattata da Paolo Sassi, Group It director, Artsana, che si dice «ancora capace di fare il project manager grazie alle esperienze in software engineering praticata fin dalle aule universitarie a 25 anni di distanza, mentre sono rari i manager che fanno propria una cultura dell’informatica intesa come capacità di gestire le informazioni».

E da qui, a ben guardare, comincia il divario comunicativo con il personale It e i vendor da parte di buona parte del top management in azienda.

Per Provini, però, è anche una questione di capacità della leadership di portare innovazione in azienda.
Anche fallendo.
«Da noi – sostiene – a mancare è l’accettazione del peso di un’eventuale sconfitta che, invece, è da mettere in conto quando si sceglie di portare avanti idee innovative».

Ma quante aziende oggi mettono i propri collaboratori nella posizione di poter rischiare pensando di correggere il tiro cammin facendo?

Se lo è chiesto Sergio Grassi, direttore commerciale Enterprise Bt Italia, citando il centro di ricerca proprietario posizionato in Inghilterra, «dove 3mila delle 3.500 persone impiegate si occupano ormai solo di servizi venduti con un percorso di vita del prodotto che non deve superare i 12 mesi. Più o meno due terzi dei restanti 500 dipendenti sono, invece, chiamati a occuparsi di innovazione un po’ più spinta con davanti a sé un orizzonte temporale di 5 anni che diventa decennio solo per una parte irrisoria dei progetti, in una proporzione nettamente diversa rispetto a quanto accadeva fino a 7-8 anni fa».

Non ci son santi, però, per Dal Checco, per il quale «per attrarre cervelli, quindi competenza e innovazione, servono investimenti in Ricerca e Sviluppo» da sostenere a livello governativo e incentivare per non perdere il tessuto di valore aggiunto che sottende alla capacità di engineering dei nostri studenti e dei loro skill pronti a emigrare all’estero.

Servono regole comunitarie per facilitare le imprese ma anche ambienti lavorativi flessibili e sensibili all’innovazione veicolata con le nuove tecnologie.
Ancora una volta, avere “fame” e vivere in un contesto che abilita le persone a essere migliori si confermano fattori chiave in un contesto europeo che ha finalmente preso atto della mancanza di competenze informatiche quantificate in circa 1,3 milioni di posti di lavoro.

Ma occorre capire di cosa si sta realmente parlando magari riflettendo sullo spunto finale offerto da Antonella Ferrari di ClubTi che, in tema analytics e non solo, è tornata a sottolineare «la necessità impellente per le imprese italiane di dotarsi di competenze al proprio interno senza aspettarsi che siano i fornitori Ict a doverci pensare».

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