Innovare? Prima investiamo sulle persone

Troviamo il modo di stimolare gli investimenti delle imprese nostrane

Da Italia gaudente, così definita nel convegno di apertura dell’edizione 2004 di Ict Trade, a Italia che riflette sulla mancanza d’investimenti in Information and communication technology in grado di rendere competitive le proprie aziende. Il tentativo di chiudere “con un po’ di positività, dopo due giorni di provocazioni”, l’evento di Ferrara, non ha propriamente prodotto gli effetti auspicati dal patron di Ict Trade, Maurizio Cuzari. Ancora troppe le differenze fra il dove ci troviamo e il dove dovremmo essere. Fra un’Italia che spinge verso l’informatizzazione dei suoi comparti industriali e un Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia, che ancora non autorizza le transazioni bancarie via telefonino. Ma, al di là degli inviti a “non confondere l’informatica con il pc” e a “preoccuparsi di meno e a occuparsi di più”, forse occorrerebbe soffermarsi sul fatto che, mentre molti parlano (e spesso sempre delle stesse cose), fuori c’è chi il business lo fa.
Di sicuro, come ha ribadito l’amministrore delegato di Sirmi: “Noi operatori del settore, continuiamo a fare ragionamenti che per il cliente non hanno particolarmente senso, anche se qualcuno più di altri ha imparato a fare squadra”, prendendo coscienza che facciamo tutti parte di questo sistema Paese e se la nave affonda, non va a picco da sola.

A introdurre il quadro, non proprio incoraggiante, è stato Lucio Poma, docente della facoltà di Economia all’Università di Ferrara che, a parte la crescita dei settori dell’edilizia e dell’immobiliare “fin troppo scontata, visto l’andamento delle azioni e dei tassi richiesti dalle banche”, ha sottolineato come il clima di fiducia delle famiglie “sia ancora basso”. Gli investimenti, e questa è la nota più dolente, non decollano, “ma in compenso – ha continuato Poma – i dati aggregati per regione, ufficializzati per la prima volta dalla Banca d’Italia, ci dicono che alcune regioni, Emilia Romagna in testa, crescono più di altre”. Il che, tradotto in soldoni, vuol dire che in un Paese ricco di diversità come il nostro, “le policy istituzionali andrebbero calibrate in maniera diversa, a seconda dei settori”. Specie quando i numeri dicono che, per la prima volta, è calata la produzione delle “macchine per fare, perché molte nazioni stanno pensando a come prodursele da sole”. E noi, allora? “Potremmo pensare a produrre conoscenza” ha auspicato il docente, ricordando però che occorrono altri passaggi affinchè il processo abbia successo. “Primo fra tutti – ha spiegato il nostro interlocutore – quello che permette di trasferire e precipitare la conoscenza all’interno dei prodotti, per rendere la ricerca un qualcosa di fruibile. Per ultimo, ma fondamentale occorre avere consumatori che riconoscano il valore aggiunto di quanto prodotto”. Senza quest’ultimo punto, tutti gli altri passaggi sono inutili, e viceversa. “La cultura – ha continuato il docente – va sostenuta con la conoscenza, perché avere in giro dati a sostegno del fatto che le imprese italiane dai 30 ai 50 addetti crescono, serve a ben poco se poi si scopre che quelle che investono in tecnologia fanno solo più velocemente le stesse cose che facevano prima”.
Già perché, in Italia, esistono due tipi di imprenditori: quelli che davanti all’innovazione mostrano una totale chiusura e quelli che comprano tutto quello che gli mettono davanti, “pensando che per magia tutti i problemi si risolveranno”.

Una cosa la vogliamo proprio riportare, però, ed è il commento di Gian Paolo Amadori, direttore sezione artigianato, new economy, ricerca e innovazione tecnologica della regione Lombardia, che ha fatto notare come nel nostro Paese tutti parlano d’innovazione allo stesso modo di quando, il lunedì mattina, “si discute della partita di calcio e tutti si sentono un po’ allenatori”. Lo stesso che, poi, però ci scivola sulla tanto agognata carta dei servizi elettonica, quella stessa che Amadori si è portato dietro per mostrarci che esiste, che è reale, ma che ai comuni, mortalissimi cittadini come noi non è ancora dato di avere. Così, davanti alla disarmante scontatezza dei risultati di una ricerca condotta in collaborazione con Microsoft e riportatici da Gianfranco Ruta, responsabile area mercati e territorio di Confcommercio, secondo la quale “maggiore è l’utilizzo dell’Ict, maggiore è il grado di organizzazione di un’azienda e le sue chance di restare sul mercato”, apprezziamo la sincerità con la quale Antonio Roncaglia, responsabile dei sistemi informatici di Vm Motori, ci ricorda che per le aziende nostrane “l’Ict è ancora tanto un costo”.

A fargli eco è Francesco Nicastro, responsabile sistemi informativi di Gi, società bolognese che produce macchine industriali, che ha affermato come “il valore lo si crea sul prodotto e sui modelli di rapporto con i clienti. L’It ha un ruolo di secondo piano, non può portare innovazione e competitività in aziende che non hanno la capacità di cambiare”.
Ci rifletta chi ha scelto di entrare in questo mercato “dove – secondo Maurizio Cuzari – in giro ci sono più quattrini, che voglia di spenderli”. E dove, stando a Giuseppe Carrella, amministratore delegato di Tsf – Tele sistemi ferroviari: “Se continuiamo così, nel film del business, l’It farà solo da comparsa. Un buon prodotto, da solo, resta solo un buon prodotto, ma innovare significa assumersi dei rischi. Occorre investire sugli uomini, recuperare le teste delle nostre persone e mettere un po’ da parte l’informatica che si rende visibile solo quando non funziona”.

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