Creare una community potrebbe servire non solo per vendere prodotti, ma per imporre una logica di appartenenza. E alla Java Conference Bernard Cova insegna che «bisogna impostare la comunicazione in maniera “nuova”»
Il radicamento è in atto e non va sottovalutato: le nuove generazioni sono in cerca di un forte ritorno alla comunità. E in questo senso la tecnologia (Ict compresa) gioca un ruolo fondamentale, perché attraverso questa è possibile creare status e con esso fortificare il legame sociale. Aggregare per appartenenza. In una parola, tribalizzare.
Usa volentieri questo termine Bernard Cova, professore all’Università Bocconi di Milano, e all’Euromed , di Marsiglia, quando parla alla Java Conference: classico incontro che sa di riunione di adepti.
Lui si riferisce alla società in cui viviamo , «molto simile a una rete di micro gruppi societari nei quali gli individui interagiscono e integrano tra di loro forti legami emozionali, passioni condivise ed esperienze similari»,. Peccato che , «tutte queste cose , – sottolinea l’esperto – , siano vissute con tanta intensità, quanto più si conosce il loro aspetto effimero».
Antenne alzate per chi si occupa di marketing in ambito consumer (ma perché non pensare anche al mondo business?). Mentre una volta era di fondamentale importanza sottolineare l’impronta altamente tecnologica di un prodotto, ora conviene minimizzare questi eventuali aspetti, puntando, invece, all’immagine che il prodotto può dare a chi lo possiede.
Pensate a dare…emozioni
Fare emergere l’emozione appare imprescindibile. Cova lo specifica: «Si vivono più intensamente gli oggetti (anche tecnologici – ndr), quanto più si conosce il loro aspetto effimero».
È il marketing della tribù che prende spazio. Per questo conoscere i termini sociologici di una comunità non fa male. Cova ci dà una mano sottolineando che «le tribù post moderne sono un insieme di individui con caratterische sociodemografiche molto diverse, ma collegati da una stessa soggettività, passione ed esperienza». Come l’attualità mostra, le tribù sono capaci di «azioni collettive vissute intensamente, benché le esperienze possono essere effimere».
Fondamentale sarà, allora, ideare azioni di marketing che mettano in risalto incontri (“rave” tecnologici?) con l’accompagnamento di rituali da condividere (slogan, refrain, spot, loghi…). Sono queste le basi per una buona “brand community” che deve volontariamente essere gestita a tavolino. Deve essere promesso un «universo sociale parallelo – fa osservare Cova -, un senso più intenso che riesca a dare slancio alla vita degli adepti».
La comunità di marca è caratterizzata dalla coscienza dei propri membri nel far parte di un gruppo specifico.
Il caso dell’italiana Ducati è significativo. Lo porta come esempio lo stesso Cova: l’azienda era in forte crisi e si è salvata grazie all’intuizione dell’amministratore delegato che ha impostato una nuova strategia di marketing non solo verso l’esterno (leggi clienti), ma facendo leva sull’appartenenza anche a questa nuova tribù dei dipendenti. Anche quest’ultimo “atteggiamento” non è da sottovalutare. Pare, infatti, che stia scomparendo la frontiera tra il produttore e il consumatore. Perché anche la comunità dà idee e diventa “naturale” sfruttarle. In termini di design, di bisogni di comunicazione.
La vicinanza al gruppo, una volta avviato il meccanismo, non ha più ritorno. E la cooperazione diventa necessaria. «Così ha fatto anche Nissan – fa notare ancora Cova – per il progetto della nuova coupé Z, il chief designer Shiro Nakamura ha deciso di non chiudersi nel suo gruppo di esperti e ha chiesto aiuto al gruppo degli appassionati».
L’attiva compartecipazione ha «il potere di far impazzire di adorazione la gente».
Il mito diventa realtà. Per questo Cova conclude dicendo che oggi come oggi bisogna «resistere alla tentazione di “fare” del marketing». O meglio: abbandonate il vecchio marketing per quello nuovo stando attenti, però, che il nuovo sapere poggia su basi completamente diverse».