Si parla spesso di una nuova bolla speculativa dell’hi-tech, facendo l’analogia con il 2000. Le voci sono discordi e vale la pena considerare con attenzione entrambe le posizioni.
Quelle a favore rimarcano come, rispetto al 2000, esistano nuovi modelli di business che fanno soldi, come AirB’n’b, Dropbox e Uber. Si tratta di imprese ben note, per le quali al momento i conti tornano. Quanto questi modelli possano essere mutuati dal migliaio di aziende entrate nella borsa Usa tra il 2013 e oggi, però, non è dato sapere. Questi sono fatti, ripetono i sostenitori a favore.
Per chi ritiene invece che la bolla ci sia, l’analisi è basata sulla metrica di valutazione, la struttura tramite la quale si incasellano le componenti della proposta e le si valuta in maniera opportuna. E trattandosi di startup l’inizio è nella Initial Public Offering, l’Ipo.
Alla ricerca del fatturato
Gli investitori, osserva Tallat Mahmood, founder and managing director di SkyPanther Capital su Techcrunch, hanno abbandonato le metriche tradizionali per passare a nuovi sistemi. Per fare un esempio, anziché parlare di fatturato (reale) usano le prenotazioni (immateriali) o le statistiche stagionali (ipotetiche): tutte pratiche legali, ma comunque non realistiche quando si parla di soldi.
I nuovi sistemi, nota però il Wall Street Journal a firma Demos, Ovide e Pulliam, non sembrano avere una struttura sufficientemente solida, per cui a lungo andare semplicemente i conti non tornano.
Inoltre la valutazione dei risultati delle Ipo appare invertita. Se un’azienda viene collocata ad un valore di 100 dollari ad azione e finisce la prima giornata (o il primo periodo di valutazione) a 100, la si ritiene un fallimento. Se invece finisce a 200, se ne parla come di un successone. “In realtà”, sottolinea Mario Herger, Ceo and founder of Enterprise Gamification Consultancy, “dovrebbe essere esattamente il contrario”. Se il prezzo pagato è stato pari a quello chiesto, hanno fatto un buon lavoro; se il mercato offre meno o offre di più, hanno fatto un cattivo lavoro.
Si noti poi che se l’azienda vende a 100 e il mercato le valuta 200, la differenza del valore non va a finanziare l’azienda, bensì a singoli e organizzazioni che hanno comperato a 100.
L’enfasi sul successo dell’Ipo è quindi tutta a sfavore delle aziende.
Unicorni sopravvalutati
Vediamo qualche numero. Le startup valutate 1 miliardo di dollari (“unicorni”, nell’immaginario narrativo della financial science fiction) sono state 7 nel 2012, 8 nel 2013, 46 nel 2014 e già 32 nei primi 5 mesi del 2015, nell’elenco di CB Insight.
Nel 2014, secondo PwC, le Ipo negli States hanno raccolto 84 miliardi di dollari[275 collocamenti], un valore tristemente vicino ai 93 miliardi che raccolsero nel 2000 [446 collocamenti], prima dell’esplosione delle dot com. Per confronto, nella vera crisi dell’anno 2008 le Ipo furono appena 31.
Va notato che il rapporto del raccolto tra il 2013 e il 2014, 57 miliardi contro 84 miliardi, è molto più morbido del drammatico raffronto tra unicorni miliardari (8 a 46), ad indicare appunto un’anomalia nella valutazione delle Ipo forti.
Molti altri indici raffrontano le due situazioni, come il Cape Ratio.
Il valore è rimasto lo stesso
Spesso si dimentica che l’espressione start-up è molto collegata a dei file powerpoint e principalmente ha valenza del tutto temporanea. “Ad un certo punto” la fase non standard della startup “dovrà diventare un’attività reale”, dice Fred Wilson -ma per la verità quasi tutti gli operatori-, Wilson, che si è espresso recentemente, lavora per la Union Square Ventures, che ha investito in Twitter, Zynga, Etsy, Tumblr e Soundcloud.
Cosa intende con “attività reale?” E’ semplice: “generare profitti reali, sostenere l’attività senza capitali di investitori, insomma iniziare a produrre valore nel modo classico”.