Cna, una piccola impresa su tre ha reagito alla crisi con l’innovazione

Una piccola impresa italiana su tre ha reagito alla crisi aggredendola con l’innovazione. Lo rileva l’indagine “Manifattura e MercatiLe Pmi dopo sette anni di crisi, realizzata da Cna Produzione in collaborazione con il Centro Studi Cna su un campione di circa 800 imprese, di cui  il 76 per cento circa fino a dieci addetti e il restante 24 per cento fino a 20.

Tra il 2008 e il 2014, la crisi ha avuto l’effetto di uno tsunami sull’economia e sulle imprese italiane. Tra il 2008 e il 2012 (il dato Istat disponibile più recente) questo tsunami ha spazzato via quasi 72mila imprese. L’impatto della crisi è stato asimmetrico: a pagarne il prezzo più alto l’edilizia e il manifatturiero, che ha lasciato sul terreno il 7,5 per cento delle imprese e visto ridursi il proprio valore aggiunto del 17,5 per cento.

Se per il 51 per cento delle imprese coinvolte nell’indagine della Cna la crisi ha interrotto un ciclo espansivo, per 27 imprese su cento si è “limitata” ad aggravare una situazione già difficile. Queste ultime sono, in genere, di taglia piccola, non esportano, non hanno seguito la strada della collaborazione tra imprese e in precedenza erano state messe in ginocchio dall’accelerazione del processo di globalizzazione. Per converso, sul 14 per cento delle imprese la drammatica congiuntura non ha avuto effetti significativi e, in sette casi su cento, ha addirittura generato nuove opportunità: sono imprese relativamente più grandi, che esportano e che hanno scelto la via dell’aggregazione più della media del campione.

Ma come hanno reagito alla crisi le micro e piccole imprese manifatturiere italiane? Il 67 per cento ha giocato, o è stato costretto a giocare, in difesa: oltre il 50 per cento ha ridotto i costi di produzione, sacrificando gli investimenti, e poco meno del 17 per cento ha cercato di salvaguardare la capacità produttive. Ma un terzo del campione ha preso di petto la congiuntura introducendo nuovi processi di produzione (10,5 per cento delle imprese) oppure offrendo prodotti e servizi originali (22,5 per cento).

La distinzione tra imprese che hanno giocato all’attacco, o in difesa, fa emergere il ruolo degli investimenti quale strumento per superare la crisi. Dall’indagine si nota, infatti, che solo due imprese “difensivistiche” su cento hanno trovato nuove opportunità negli anni della crisi contro il 18 per cento raggiunto tra le imprese che hanno innovato.

L’indagine fa emergere strategie profondamente diverse anche sull’approccio al mercato: il 61 per cento delle imprese interpellate si è posto come imperativo il “primo non prenderle”, caratteristico, per rimanere alla metafora calcistica, del “catenaccio all’italiana”. Le altre, invece, hanno scelto il contropiede: il 25,8 per cento ha puntato all’acquisizione di nuovi clienti e il 13,2 per cento è entrato addirittura in nuovi mercati.

Nonostante i buoni risultati, solitamente, dalle imprese che appartengono a reti o consorzi, solo il 17,5 della platea ne fa parte. Perché? Le risposte sono variegate: il 43,8 per cento “non ha mai trovato i partner ideali”, il 38,8 per cento “non ne ha bisogno”, l’11,2 per cento è convinto che “la collaborazione formale comporta più vincoli che vantaggi” e il 6,2 per cento non vuole “condividere con altri le conoscenze maturate in anni di attività”.

A recessione finita (ma a ripresa ancora gracile) quali sono, infine,i fattori negativi da rimuovere per aumentare la capacità competitiva delle imprese? In cima ai “desiderata” compare la diminuzione del carico fiscale, sulle imprese e sul lavoro. La semplificazione amministrativa segue a distanza. Quindi, nell’ordine, il sostegno agli investimenti nella innovazione, la tutela dei marchi nella valorizzazione del Made in Italy, la disponibilità di credito, la presenza di personale qualificato, gli incentivi al consumo, aiuti alla creazione e/o al consolidamento delle reti d’impresa.

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