C’è chi la chiama Smart Agriculture, chi Smart Farming, chi ancora Precision Agriculture: termini tutti validi che stanno a significare cose a volte diverse ma legate allo stesso tema, ossia all’applicazione delle tecnologie di ultima generazione, specie l’Internet of Things e l’Intelligenza Artificiale, all’agricoltura.
I termini sono molti perché sono tante le possibili applicazioni, ma lo scopo è sempre quello: aumentare la produttività. Non si tratta solo di una motivazione di business: anche le organizzazioni internazionali come la FAO hanno sottolineato che per sfamare gli oltre nove miliardi di persone che dovrebbero abitare il pianeta nel 2050 servono approcci nuovi.
Il parallelo con quanto si sta facendo in campo industriale con le stesse nuove tecnologie è evidente. Tanto che se nel manufacturing si parla di Quarta Rivoluzione industriale, qui si parla di Terza Rivoluzione Verde (le prime due sono l’incrocio delle specie vegetali e l’uso della genetica nelle coltivazioni).
Questo parallelo ci permette di condensare la nuova rivoluzione dell’agricoltura in tre ambiti fondamentali che sono caratteristici anche di Industry 4.0: la raccolta e la gestione delle informazioni, l’analisi di queste stesse informazioni in ottica decisionale, l’automazione delle operazioni.
Dalle informazioni alle decisioni
Uno degli elementi chiave nelle applicazioni di Smart Farming è la raccolta di più informazioni possibili sul campo, stavolta letteralmente. La logica è quella dei sensori disseminati dovunque sia necessario, sfruttando il fatto che grazie alla miniaturizzazione della componentistica elettronica è possibile avere sensori periferici di dimensioni e consumo contenuto per tutte le variabili ambientali d’interesse: temperatura, umidità, concentrazione di elementi chimici nel terreno, intensità e direzione del vento, precipitazioni, eccetera.
In questo senso lo Smart Farming non è una rivoluzione dell’agricoltura ma un ampliamento delle pratiche tradizionali con una maggiore “intensità” del valore delle informazioni. L’agricoltore non ha una visione diversa del suo ambito ma ne ha una molto più precisa, potendo raccogliere più dati con una maggiore accuratezza e in tempo reale. E con la possibilità di combinare i dati che raccoglie sul suo terreno con quelli raccolti da altri agricoltori o messi a disposizione da altri fornitori di informazioni.
La Precision Agruculture è di più
Raccogliere dati è solo il primo passo che permette di lavorare meglio, non certo una rivoluzione. Quando si parla di Precision Agriculture si intende qualcosa in più: la gestione e l’analisi di grandi quantità di dati storicizzati per dare vita a sistemi di supporto alle decisioni.
È una applicazione in più del principio base del machine learning: il singolo agricoltore non può analizzare grandi quantità di dati (anche perché probabilmente non ha accesso a più di tante fonti), un sistema digitale può invece mettere insieme rilevazioni di sensori, immagini satellitari, riprese di droni, informazioni meteo, serie storiche e quant’altro per arrivare a un modello dell’ecosistema agricolo.
Questo modello serve non solo a reagire rapidamente al verificarsi di certe condizioni (da una infezione ai cambiamenti climatici) ma a prevederle e ad agire in maniera preventiva. Una forma di “farm management” analitico-predittivo che mira a ottimizzare la produzione preservando le risorse.
Il ruolo dell’automazione
Se l’ottica dello Smart Farming è quella della reazione immediata, addirittura preventiva, al verificarsi di certe condizioni, in prospettiva l’agricoltura non può che diventare sempre più automatizzata. Il che non vuol dire necessariamente anche industrializzata: la visione di molti teorici della Precision Agriculture è andare verso modelli di coltivazione più efficienti ma anche più sostenibili e di maggiore qualità. Avere più dati e un controllo più preciso delle operazioni dovrebbe portare a uno sfruttamento meno intensivo delle coltivazioni, non più brutale.
L’automazione comunque resta un passo essenziale. Come si pensa a un gran numero di sensori installati nel terreno per avere rilevazioni sempre più precise, così si pensa a sistemi di irrigazione e distribuzione di sostanze chimiche a controllo automatico che permettano di intervenire in maniera mirata dove e come serve davvero. Usare personale umano per interventi così precisi sarebbe antieconomico, dare un “braccio meccanico” ai sistemi di machine learning è molto più efficiente.
La robotica in senso lato è il passo successivo. O in alcuni casi un passo già compiuto: i principali produttori di macchinari agricoli sono già entrati nell’ottica di sviluppare macchinari “connessi” che si controllano a distanza e che possono agire in (relativa) autonomia al verificarsi di certe condizioni. E se ci pongono dei limiti non sono certamente “culturali” ma tecnici: i grandi vendor hanno tutto l’interesse a sviluppare macchinari smart e connessi, dato che a monte di tutto ipotizzano ambienti di raccolta e analisi dati gestiti direttamente e non dagli agricoltori. Una evoluzione in parte inevitabile ma che, come accenniamo più avanti, ha i sui punti critici.
Vantaggi chiari, ma anche freni
La Terza Rivoluzione Verde ha grandi promesse e un contenuto innovativo concreto, ma vede anche molti ostacoli alla sua diffusione massiccia. Non è in discussione il valore aggiunto dello Smart Farming ma le dimensioni di spesa. Il settore agroalimentare è trainante in Europa e in Italia ma è fatto per la stragrande maggioranza di piccole-medie imprese che non hanno – in questa fase ma nemmeno in generale – facile accesso a capitali da investire in nuove tecnologie.
Non a caso negli Stati Uniti, dove le dimensioni sono diverse, si stima che già l’80 percento degli agricoltori usi una qualche forma di Smart Farming mentre in Europa la percentuale cala a meno del 25 percento. Servono programmi nazionali o comunitari di sviluppo. E ci sono, come lo Smart Akis (Agricultural Knowledge and Innovation Systems) della UE.
La diffusione dello Smart Farming inoltre comporta una trasformazione culturale. L’agricoltura e l’allevamento sono vissuti da secoli come attività in cui l’agricoltore o l’allevatore in prima persona, grazie alle proprie competenze e anche agli strumenti a disposizione, raggiungono determinati risultati.
Aumentare il tasso di utilizzo della tecnologia ovviamente non è un problema, può diventarlo se da un lato non si parla la lingua giusta e dall’altro si sbilancia il ruolo dell’agricoltore verso quello di fruitore di servizi sui quali non ha controllo.
Quanto può essere IT un agricoltore
Il primo punto non è nuovo. Non si può trasformare l’agricoltore in un IT manager o in un integratore di tecnologie, i produttori devono offrire soluzioni articolate e il più possibile complete e interoperabili, magari passando attraverso realtà intermedie (dai consorzi alle associazioni di categoria) che svolgano un ruolo sia di raccolta che di filtro. E magari anche di supporto.
La seconda questione è più specifica e in divenire. È logico che lo Smart Farming ponga l’accento sull’importanza delle informazioni e sull’automazione, ma snaturare il ruolo dell’agricoltore è rischioso. Ad esempio, alcuni produttori di mezzi agricoli stanno adottando una logica a metà tra la vendita e la fruizione di un servizio. Il trattore – banalizzando – lo si può acquistare, ma il software che lo pilota e i servizi associati sono solo su licenza e quindi spesso legalmente fuori dal controllo dell’utente. Ma un trattore, secondo gli utenti più critici, non è un PC: deve fare sempre quello che il suo proprietario vuole.
Sono solo problemi di crescita per un settore che sta evolvendo rapidamente? Probabilmente sì. Le cose stanno cambiando talmente in fretta che nessuno ha preso davvero bene le misure del fenomeno e di come lo deve approcciare dal suo punto di vista di fornitore e di utente. E come in tutti i campi in forte evoluzione, alla fine gli approcci troppo rigidi verranno eliminati dalla concorrenza più – è il caso di dirlo – smart.
Smart; naturalmente per i poteri che governano la terra ed il cui unico scopo è massimizzare gli utili in tutti i modi (le multinazionali agricole, chimiche finanziarie), non certo per quelli che muoiono di fame e che continueranno a morire di fame o gli agricoltori che produrranno di più senza ottenere vantaggi.
Il solito discorso per la solita maggioranza di consumatori (soprattutto nel senso di sprecatori).