Nel 2021 avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro hanno investito complessivamente 1,76 miliardi di euro in tecnologie digitali, con un aumento del 3,8% rispetto all’anno precedente. Un dato positivo, anche se per la prima volta in dieci anni l’incremento percentuale è inferiore a quello evidenziato dalle aziende (+4,1%), a dimostrazione di una reazione “tattica” alla pandemia: solo i grandi studi, prevalentemente del settore legale, hanno elaborato una strategia in grado di innovare il business attraverso le tecnologie più evolute, mentre la maggior parte degli studi professionali presenta modelli di business statici, che hanno indirizzato gli investimenti in digitale verso le esigenze contingenti, come l’adozione dello smart working. Anche la previsione per il 2022 propone una cautela generalizzata, attestando gli investimenti in tecnologia sui livelli del 2021 (+0,2%).
Una forte differenza, però, si evidenzia considerando le dimensioni degli studi professionali. Tra le micro realtà, ben l’11% non ha investito nulla in ICT e solo l’1% ha destinato più di 10mila euro, mentre tra gli studi piccoli, medi e grandi solo il 3% non ha investito in tecnologia e il 22% investe più di 10mila euro. Tra i diversi settori, gli studi multiprofessionali sono quelli che spendono di più per il digitale (in media 25.050 euro), in linea con il 2020, gli avvocati hanno visto un aumento degli investimenti del +2,9% (8.950 euro medi), i consulenti del lavoro del +2,5 (10.350 euro), mentre i commercialisti hanno visto scendere gli investimenti in ICT del -5,4% (11.450 euro).
Ad essere stati più penalizzati dalla pandemia, anche a causa della chiusura dei tribunali e del rallentamento delle attività giudiziarie, sono soprattutto gli avvocati: solo per uno studio legale su due il 2021 è stato più favorevole del 2020. Mentre i vari provvedimenti del governo a sostegno delle attività economiche hanno incrementato l’attività di commercialisti, consulenti del lavoro e studi multidisciplinari, che, nel 60% dei casi, hanno visto aumentare la redditività rispetto al 2020. Se si guardano le perdite, appena il 15% di commercialisti, consulenti del lavoro e studi multidisciplinari ha perso oltre il 10% rispetto al 2020, mentre per gli avvocati, la percentuale sale al 25%.
Emerge però un fattore chiave per rilanciare gli studi in termini economici e finanziari: la collaborazione o l’aggregazione con altre realtà. Quelli che realizzano in modo stabile collaborazioni con altri studi o realtà diverse (come software-house, banche, network internazionali) per sviluppare business congiuntamente evidenziano una percentuale di redditività più alta (68%) rispetto alla media generale (58%). Ma è una pratica ancora poco diffusa: solo l’8% degli studi ha avviato collaborazioni formalizzate, mentre il 26% lo ha fatto in modo stabile ma informale e un altro 26% solo occasionalmente, mentre il 37% non le ha avviate del tutto.
Sono alcuni dei risultati della ricerca dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale della School of Management del Politecnico di Milano, condotta su un campione di oltre 1700 studi di avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro e presentata oggi durante il convegno “Studi professionali: dal valore le indicazioni per lo sviluppo”.
“I professionisti hanno reagito tatticamente alla pandemia, affrontando con il supporto tecnologico la polverizzazione degli uffici nelle case dei dipendenti – spiega Claudio Rorato, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale -. Si è puntato su lavoro da remoto e smart working, ma le realtà più grandi e strutturate, che sono anche quelle che investono di più in innovazione digitale, sono riuscite a gestire meglio la situazione. Negli studi più piccoli, invece, le crisi aumentano le debolezze strutturali già presenti. Gli studi legali, proprio per l’elevata incidenza di microstrutture, soffrono in termini di redditività e di capacità di sviluppo, non riuscendo a elaborare nuovi modelli organizzativi, di relazione e di business. Gli studi più articolati, invece, stanno elaborando modelli avanzati e sempre più competitivi. Oltre alla dimensione, poi, è fondamentale la volontà di collaborare con altre realtà, ma purtroppo il particolarismo vince ancora sulla collaborazione”.
“Per far fronte alle difficoltà una delle strade da percorrere è misurare e far percepire ai propri clienti il valore generato all’interno della relazione tra professionista e cliente – afferma Federico Iannella, Ricercatore dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale -. Ancora una volta, però, si tratta di un’attività che viene considerata importante e portata avanti solo dalle realtà più grandi e strutturate. Gli studi che misurano con regolarità il valore creato per la clientela vanno dall’8% degli avvocati al 19% dei multidisciplinari, con un disinteresse per il tema che va dal 14% di questi ultimi al 30% degli avvocati. Circa il 40%, in generale, dice di non avere il tempo di farlo”.
Gli ambiti di investimento – Le professioni hanno destinato gli investimenti in ICT soprattutto per la fattura elettronica (86%), i sistemi per la gestione di videochiamate (75%), le piattaforme di eLearning (48%), la conservazione digitale a norma (42%) e le reti VPN (36%). Tre di queste cinque tecnologie sono figlie della pandemia, che ha accelerato la loro adozione con la chiusura forzata degli uffici per lunghi periodi. In merito, invece, alle intenzioni di investimento entro il 2023, gli avvocati privilegiano il sito web (13%), la pagina social dello Studio (9%) e la conservazione digitale a norma (7%). I commercialisti puntano sulla conservazione digitale a norma (9%), sui software per il controllo di gestione, sul sito internet per lo Studio e sulla gestione elettronica documentale, tutti al 6%. I consulenti del lavoro prediligono la conservazione digitale a norma (12%), il sito per lo Studio (7%), il software per la gestione della crisi d’impresa. Infine, gli Studi multidisciplinari manifestano preferenze per il prossimo biennio nel sito web (10%), nel software per la gestione della crisi d’impresa (7%), nella pagina social e nella conservazione digitale a norma (entrambe al 6%).
Il pessimismo – L’attuazione del cambiamento ha come radice importante la capacità di coglierne l’urgenza, ma anche l’atteggiamento mentale di ottimismo o pessimismo condiziona la volontà di fare. Di fronte alle domande sul futuro della professione gli avvocati risultano i più pessimisti (69%), seguiti dai commercialisti (58%) e dai consulenti del lavoro (51%). Più positivi rispetto al futuro sono gli appartenenti agli studi multidisciplinari, tra cui i pessimisti sono il 46% del totale. Chi ritiene che non cambierà nulla al massimo raggiungono il 14% (multidisciplinari), mentre i più fiduciosi sono i consulenti del lavoro (42%) seguiti dagli Studi multidisciplinari (40%), dai commercialisti e dagli avvocati (30% e 29% rispettivamente).
L’adeguamento delle competenze – L’adeguamento delle competenze per i nuovi modelli organizzativi, relazionali e di business abilitati dal digitale è poco oggetto di attenzione negli studi professionali, nonostante la pandemia abbia stimolato l’emergere di nuove modalità relazionali e di business. Il 14% degli studi ha assunto o sviluppato collaborazioni per arricchire lo studio di nuove abilità estranee alla professione, mentre il 42% sta pensando di farlo. Il 20% non ritiene opportuno ampliare le competenze dello studio se non in chiave di specializzazione della professione stessa, il 24% è a posto così. Tra gli studi che hanno sviluppato collaborazioni o aggregazioni, la percentuale di chi ha portato all’interno competenze estranee alla professione raddoppia (28%), mentre si dimezza quella di chi si ritiene a posto con le competenze già possedute (13%), a dimostrazione di quanto l’attenzione verso le nuove competenze sia un fattore culturale e di capacità di elaborare nuove visioni.
L’attenzione al personale – Anche l’attenzione verso le soft skill del personale presenta luci e ombre. Circa la metà degli studi di avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro non sono interessati al tema, un terzo è intenzionato ad avviare progetti con questo obiettivo, mentre poco più del 20% ha già sviluppato o ha in corso progettualità di questo genere. Gli Studi multidisciplinari, vuoi per dimensione, vuoi per cultura gestionale più evoluta, dimostrano maggiore sensibilità al tema, evidenziando all’incirca un’equa ripartizione tra disinteresse, interesse a fare e operatività già avviata. In questa direzione sono i grandi studi, prevalentemente di estrazione legale e multidisciplinare, a fare il vero salto qualitativo. Tutti, infatti, hanno già realizzato o stanno realizzando progetti per potenziare le soft skill del personale.