Iniziamo con questo articolo la pubblicazione di una serie di contributi dedicati alla App economy, ai suoi presupposti, ai suoi sviluppi e alle sue potenzialità. Buona lettura
Benché esista ormai da molto tempo, il software è l’elemento disruptive della società d’oggi, che solo adesso sta manifestando tutta la sua potenzialità. Software is eating the world, scrisse Marc Andreessen qualche anno fa. Come per i manoscritti del Medioevo, finché le copie restarono chiuse nei monasteri la loro potenzialità fu espressa per i pochi che avevano accesso, mentre quando iniziarono a girare nuovamente per l’Europa, per poi essere stampati in centinaia di copie, i semi che contenevano poterono germogliare e cambiare il mondo.
La prima fase del software è stata relegata a quei monasteri detti mainframe, poco comunicativi e per nulla agili. Quando il software ha potuto diffondersi con tranquillità è diventato parametrico e autocomunicativo. Si pensi all’evoluzione della compilazione dei documenti (pdf compilabili), all’evoluzione dei contenuti digitali (libri e riviste, audio e video) e alla rivoluzione dei modelli 3D parametrici per oggetti dall’anellino alla parete di casa. Adesso questo approccio sta entrando un po’ dappertutto, seguendo il marchio marketing dell’Internet delle cose nelle sue numerose varianti.
La parte forte di questo fenomeno è la redazione del software in modo aperto ed accessibile dall’esterno in numerosi punti. Ciascun punto di accesso viene detto Application programming interface, interfaccia di programmazione, in breve Api, ed è definita da regole compilate con metodi più o meno standard.
Individuare le Core Apis
Seguendo il white paper Winning in the Api economy, proposto da 3Scale a fine 2015 e disponibile in calce a questo articolo, l’approccio al business indotto dalla Api economy parte da tre osservazioni estremamente precise: quali siano le componenti centrali dell’attività (core assets), quali interfacce vogliamo che offrano al mondo interno ed esterno e come facciamo confluire le transazioni economiche. Queste saranno le interfacce centrali della nostra Api economy.
Una volta modellato questo processo in maniera robusta si può passare alle altre interfacce, con applicazioni e canali di distribuzione che possono essere stratificati intorno al nucleo.
Processi agili su due livelli
L’accesso dall’esterno alle singole componenti del software aziendale da parte di personale interno all’azienda, fornitori o anche consumatori, genera quella che si chiama App economy. Se si parla di economia vuol dire che si parla di soldi e l’App economy ne porta molti: ottimizza l’esistente (con risparmi), apre la porta a nuovi servizi, visibili solo dopo la riorganizzazione del software (nuove entrate), rende agile l’attività per cui ne prolunga la vita nel tempo (maggior stabilità) e soprattutto apre le porte a nuovi rivoli d’incasso che l’azienda non vede ma una terza parte può individuare nelle pieghe delle Api. Il massimo esempio di questa rivoluzione è certo il cloud di Amazon, ma a livelli minoro e comunque interessantissimi è una situazione che si verifica costantemente, tutti i giorni, e che continuerà a manifestarsi per molto tempo ancora.
Parlare di Api in azienda richiede una visione su due livelli. A un livello strategico, mentre le opportunità e i rischi possono essere chiari, in pratica è spesso estremamente difficile sviluppare software adatto all’intera organizzazione; ancora più difficile è far funzionare coerentemente i diversi sistemi. Questa situazione mette pressione all’organizzazione, che si trova a dover servire necessità interne ed esterne, difendendo il vantaggio competitivo in tempi di variazioni isteriche del mercato, allineare l’It con gli obiettivi di business in un mondo di data center sempre più virtuali e nel cloud, con attenzione a ciò che può andare in tempo reale e a ciò che è necessario sia condiviso al di fuori dell’organizzazione.
In quest’ottica gli investimenti richiedono attenzioni maggiori che nel passato, perché l’efficienza del rapporto qualità/prezzo va cercata in un mare di soluzioni simili nell’oggi e con traiettorie diverse, aumentando la già complessa determinazione di ciò che è meglio non oggi bensì su scala pluriennale.
Api-driven business
Affrontandoli via software, i nodi organizzativi delle aziende vengono sciolti da un approccio di tipo Api. Ristrutturano e riorganizzano i sistemi interni, semplificano l’introduzione di nuove funzionalità e processi, aumentano l’agilità (risposta alle variazioni delle condizioni → come la definizione di intelligenza degli antropologi?), permettendo di raggiungere nuovi clienti con vecchie e nuove proposte, generando fatturato fresco.
Abbiamo accennato in precedenza alle terze parti che collegano la loro attività a quelle di un’impresa attraverso l’uso delle Api. E’ questo il punto centrale della Api economy: si creano nuove partnership e si attivano canali di distribuzione che possono rivendere i prodotti o servizi esistenti, adattandoli al loro mercato. Con questo approccio, molto adatto alla variabilità del mercato, si sviluppano nuovi prodotti o servizi la cui commercializzazione è altrettanto semplice, se non più, di quelli già esistenti. A fine 2015, le Api di Netflix supportavano oltre 800 partner per la distribuzione di contenuti. Ma i nomi sono infiniti: eBay, Expedia, Paypal, GM, Belkin, Nike… nel solo 2015 Expedia ha generato un fatturato di 4 miliardi di dollari solo attraverso la rete di partner che si appoggiano alle sue Api.
Api iceberg e Data Lake
Anche per l’Api economy si può usare la metafora dell’iceberg: quello che è visibile è solo una piccola parte di ciò che è nascosto sott’acqua. Infatti si stima (3Scale/Craig Burton) che il 90% delle Api esistenti sia ancora privato. E se aggiungiamo la metafora del data lake, molto in uso nel mondo dei big data, possiamo pensare ad un enorme lago di acqua fredda sul cui fondale ci siano le copie dei dati male usati e sulla superficie galleggino iceberg di Api.
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