Le aziende hanno già cominciato ad utilizzare bot per portare avanti alcuni semplici processi di business: è il campo nascente della RPA (Robot Process Automation), che vede già diverse applicazioni in cui un algoritmo cerca di replicare quello che farebbe un operatore umano.
Il punto è che i compiti che può svolgere un bot sono limitati dal fatto di dover essere definiti in maniera precisa da regole: cosa fare in funzione di determinate condizioni. Questo determinismo (quasi) assoluto è ciò che rende le operazioni noiose per gli umani ma permette ai bot di operare in maniera precisa.
Già solo con queste funzioni i bot hanno portato molti vantaggi alle aziende che li hanno adottati. Affiancano o sostituiscono gli operatori garantendo meno errori e una maggiore velocità nello svolgere le loro operazioni. E la loro tecnologia si è evoluta.
Deloitte stima che un progetto pilota richieda ormai anche solo un paio di settimane, lasso di tempo che aumenta se l’integrazione con i sistemi aziendali è difficoltosa e se i processi su cui devono intervenire i bot sono poco digitalizzati e poco standard (ossia con molte eccezioni alle regole).
Secondo le analisi di mercato, il settore della RPA dovrebbe toccare nel 2020 i cinque miliardi di dollari di giro d’affari globale.
Andare oltre le regole
Ma resta il limite di fondo: dover operare su regole ben precise. Ad esempio un bot non ha problemi a capire se un utente ha compilato correttamente i campi di una fattura, ma capire il senso del contenuti di una mail va oltre le sue capacità.
È il motivo per cui anche le implementazioni più estese dei bot non toccano più della metà dei processi di back-office e la media è molto inferiore.
Per superare questo limite la tendenza è estendere i bot con funzioni di cognitive computing che diano loro una maggiore capacità di comprendere e valutare le situazioni che devono gestire.
Le funzioni principali in questo senso sono la comprensione del linguaggio, il riconoscimento del parlato, l’analisi delle immagini e la capacità di gestire un dialogo di base. In questo modo i bot possono estrarre significato e informazioni da elementi come un messaggio di posta elettronica o da una fotografia.
Molte delle applicazioni che vedono i bot arricchiti con funzioni cognitive riguardano la gestione di grandi moli di documenti più o meno strutturati, perlopiù in campo finanziario o dei servizi. Si va dall’automazione dei pagamenti alla valutazione delle richieste di rimborso per i ritardi ferroviari, dall’interpretazione dei fax alla gestione delle domande di finanziamento.
Il ruolo dei vendor di bot
Ad ampliare le capacità dei bot con il cognitive computing devono essere principalmente le software house che li sviluppano. È infatti quello che sta accadendo, con tre linee principali di evoluzione tecnologica. Alcuni vendor stanno sviluppando direttamente in casa le competenze necessarie, una opzione sicuramente più complessa ma che consente probabilmente un maggiore raggio d’azione nello sviluppo futuro.
L’alternativa è utilizzare strumenti di cognitive computing offerti da terze parti, anche open source, da adattare caso per caso alle esigenze dello specifico cliente. Infine, c’è chi ha sviluppato partnership con i grandi nomi del machine learning, come ad esempio IBM Watson.
In ogni caso lo scopo principale è semplificare la creazione, la personalizzazione e l’implementazione dei bot “intelligenti”. In caso contrario la loro adozione da parte delle imprese potrebbe essere molto più lenta di quanto le software house sperano, dato che creare soluzioni ad hoc con tecnologie cognitive non è semplice e le competenze in merito sono poco diffuse. Volendo vedere una opportunità in questo problema, lo sviluppo del settore dei bot “smart” può anche essere un fattore di accelerazione nella diffusione del cognitive computing nelle imprese.