Lo pensa Marco Fanizzi, neo-Country Manager di Emc, che ci spiega come fare, partendo dal Cio.
Qualche dato, di fatto e di previsione, per cominciare: il numero di dati distribuiti in tutto il mondo raddoppierà nel corso 2011 per toccare gli 1,8 zettabyte. Entro il 2020, si prevede che si raggiungano i 35 zettabyte.
Da dove provengono? Nel 2009 gli utenti di internet mobile erano circa 450 milioni. A partire dal 2013 la cifra è destinata a superare il miliardo.
I servizi di social media generano quantità di dati non strutturati a causa del proliferare di conversazioni online.
L’utilizzo di applicazioni social media sul posto di lavoro varia dal 13% dei dipendenti a quasi il 60% dell’intera forza lavoro.
Le applicazioni software scaricabili permettono agli utenti di fare virtualmente qualsiasi cosa dai loro telefoni cellulari, mentre nuove applicazioni geospaziali quali Google Maps generano quantità di dati temporanei.
Ecco i big data, che chiedono risposte.
Emc lo fa con architetture di storage scale-out, applicazioni di business intelligence e tecnologie di cloud computing.
Per Marco Fanizzi , neo-Country manager della società in Italia, non è solo la quantità di dati che sta cambiando rapidamente, ma anche la tipologia. Non sono dati strutturati, si replicano a gran velocità e molti si dissolvono con la stessa rapidità con cui sono generati.
I big data, pertanto, necessitano di una gestione diversa e servono tecnologie di gestione e manipolazione più efficienti rispetto a quelle utilizzate in passato.
Da dove si deve cominciare, quindi, per estrarre valore dall’universo digitale?
Prima di tutto, per Fanizzi, occorre presentare al Cio un business case specifico per investire nella tecnologia della quale si ha bisogno al fine di automatizzare il procedimento di acquisizione, trattamento e conservazione dei dati.
In seguito bisogna pianificare una strategia progressiva di business intelligence che permetta alla propria azienda di comprendere e interpretare i dati che processa, con conseguenti benefici tangibili a livello di business.
L’analisi dei big data permette alle aziende di effettuare confronti incrociati e comparazioni di insiemi disparati di dati non strutturati per trovare nuovi “sweet spot” competitivi.
Per esempio, le aziende di finanziamento potrebbero ridurre i rischi sui prestiti coprendo i dati delle richieste con i dati di pignoramento in un contesto geospaziale; i retailer potrebbero combinare informazioni sui social network, contenuti dei blog e ricerche degli analisti con dati socio-demografici per identificare trend di acquisto e motivazioni che spingono alla fedeltà da parte dei clienti; le forze dell’ordine potrebbero monitorare la criminalità andando a valutare riprese video, prove fotografiche, registri di polizia, e altre fonti di informazione.
Sono due le considerazioni da fare per Fanizzi in relazione alla metodologia dei big data. In primis, occorre decidere quale sia l’intelligence che porti più valore alla propria azienda.
In secondo luogo e forse cosa più importante, l’analisi dei big data richiede un’interpretazione più sofisticata oltre ad un insieme di competenze più complesse e trasversali per sfruttare qualsiasi idea.
Procedendo nel modo giusto si ottengono notevoli vantaggi, quali una road to market più rapida, processi di selezione più ponderati, strategie di marketing più efficaci e in definitiva, un aumento sostanziale nei profitti.
E non bisogna commettere errori. Perciò la Business intelligence derivante dai big data è un grosso affare. Può trasformare l’It da centro di costo in centro di profitti. Può essere l’elemento differenziatore rispetto alla concorrenza. Può, senza dubbio, definire quali saranno i vincitori e gli sconfitti nel prossimo decennio. E i professionisti dell’It non possono ignorare tutto questo.
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