Il presidente di Indena, Dario Bonacorsi, spiega la rinnovata strategia della sua società, impegnata ad affrontare la concorrenza che arriva dall’Oriente
Un sito Internet completamente in inglese, un fatturato dipendente per oltre il 90% dall’estero e un importante impegno nella ricerca. La tendenza all’internazionalizzazione è da tempo una delle caratteristiche principali di Indena, azienda milanese attiva nel campo dell’estrazione di principi attivi dalle piante medicinali. Ma la globalizzazione e l’arrivo di nuovi concorrenti nel settore impongono una certa rivisitazione dei modelli di business: B2B24.it ne ha parlato con Dario Bonacorsi, presidente di Indena.
Quali sono i settori di competenza di Indena?
Fondamentalmente ci occupiamo di ricavare principi attivi da piante medicinali, destinandoli poi a tre mercati: innanzitutto quello farmaceutico, che è per noi di gran lunga il più importante, poi quello dei dietary supplement (i cosiddetti integratori alimentari), e infine quello della cosmetica, in particolare skin care. Quello che distingue Indena da altri produttori di principi attivi è che noi abbiamo la peculiarità di utilizzare materie prime esclusivamente di origine vegetale.
In che modo decidete di lavorare su una determinata pianta medicinale? Agite autonomamente o su input delle grandi case farmaceutiche?
Per quanto riguarda i principi attivi destinati al settore farmaceutico, in genere operiamo con progetti di cosviluppo con i nostri clienti: questo vuol dire che tante volte i nostri partner sviluppano autonomamente la molecola che gli serve per i loro prodotti, ma nel momento in cui si trovano di fronte al problema di doverne produrre in quantità industriale, preferiscono rivolgersi a noi piuttosto che attrezzarsi per farlo da soli. Anche per una big della farmacia, infatti, può essere molto complicato muoversi in una nicchia di mercato come questo: ci sono i problemi di approvvigionamento delle piante medicinali, le peculiarità della tecnologia. Altre volte abbiamo realizzato delle ricerche in cui l’idea nasce a cavallo tra noi e il cliente, e si può perciò anche arrivare a dei cobrevetti. Ultimamente, invece, abbiamo sviluppato autonomamente delle ricerche nel campo oncologico, registrando anche dei brevetti che ci permettono di essere al riparo da eventuali plagi.
Avete rapporti preferenziali con qualche gruppo farmaceutico in particolare?
No, non ne abbiamo. Siamo stati legati alla Bristol per lungo tempo da buoni rapporti d’affari e amicizia, ma non esistono rapporti preferenziali di nessun tipo. Ci incontriamo regolarmente con i nomi principali della farmaceutica, e abbiamo in essere collaborazioni con diverse aziende del settore.
Le piante che arrivano nel vostro stabilimento di Settala arrivano dalle parti più lontane del globo. Che tipo di struttura avete messo in piedi?
La nostra organizzazione è piuttosto sofisticata, lavoriamo ogni anno oltre 20mila tonnellate di piante medicinali essiccate, che devono essere spesso coltivate nei paesi e nei climi più adatti. Per questa attività ci appoggiamo spesso a dei piccoli imprenditori locali: i terreni non sono quasi mai di nostra proprietà, in genere stipuliamo dei semplici contratti di assistenza tecnica. Tra i paesi in cui siamo maggiormente installati con questa formula, oltre all’Europa (dove se possibile cerchiamo di duplicare queste colture), ci sono gli Stati Uniti, l’India, il Madagascar, l’ex Zaire, la Repubblica Centrafricana. L’India, in particolare, è molto importante per noi, tanto che pensiamo anche di potenziare il nostro stabilimento, non solo per risparmiare sui costi di produzione, anche per garantire una maggiore sicurezza degli approvvigionamenti. Mi spiego: spesso siamo fornitori esclusivi di prodotti per i nostri clienti, come ad esempio il taxolo (farmaco salvavita) per la Bristol, che è arrivata a fatturare un miliardo e 700 milioni di dollari con questo prodotto. È chiaro che dobbiamo essere perciò assolutamente in grado di garantire la sicurezza delle nostre forniture, e lo possiamo fare solo incrementando la nostra presenza in alcuni paesi strategici.
Quale fatturato avete raggiunto nel 2006 e quali sono le prospettive di crescita per il futuro?
Siamo intorno ai circa 160 milioni di euro di fatturato, realizzato fuori dall’Italia per il 92-93%. In particolare, il 65% del nostro giro d’affari complessivo è prodotto dal settore farmaceutico, circa il 25% dipende dagli integratori e il restante 5% dalla cosmetica. Per il futuro c’è un settore nuovo, quello dei functional food (alimenti funzionali), in cui credo ci siano per noi interessanti prospettive di sviluppo. Sono invece abbastanza pessimista per quanto riguarda il nostro ruolo nel mercato degli integratori. Attualmente il settore è infatti dominato da aziende orientali (spesso cinesi), che in un mercato poco regolamentato riescono a praticare prezzi più bassi a discapito della qualità, che invece è uno dei nostri tradizionali punti di forza. Già oggi la nostra presenza in questo comparto si è drasticamente ridotta, in particolare negli Stati Uniti: qualche anno fa eravamo arrivati a fatturare anche 45 milioni di dollari, nel giro di 5-6 anni siamo scesi a 15. Al contrario, il settore dei functional food è per noi estremamente interessante: le grandi multinazionali del settore, quando pensano di mettere qualcosa di “attivo” nei loro prodotti, ci prendono spesso in considerazione, perché nel campo dei derivati botanici siamo uno dei leader nel settore.
Quali saranno nel futuro i vostri mercati di riferimento?
Il mercato americano è per noi il primo per importanza, soprattutto per le dimensioni del settore farmaceutico, che è il più grande del mondo. Per questo motivo è evidente che gli Usa rimarranno il mercato di riferimento anche nel prossimo futuro, anche se il cambio attuale del dollaro ci crea non pochi problemi. Per quanto riguarda l’Asia, collaboriamo già da tempo con molte importanti aziende giapponesi, e i nostri prodotti, esportati da diverse multinazionali, si trovano già in questo continente. Non credo che però ci troveremo ad approcciare direttamente case farmaceutiche cinesi, soprattutto perché, anche in questo sconfinato paese, il comparto è in mano alle big internazionali del settore.
Che importanza ha per voi l’attività di ricerca?
La ricerca è per noi qualcosa di molto importante, circa il 10% del nostro personale è costituito da ricercatori, ma bisogna anche ammettere che questa attività è anche molto onerosa dal punto di vista dei costi. Ogni anno, infatti, reinvestiamo circa il 9% del fatturato in ricerca, ed è una cifra che ci siamo sinora potuti permettere grazie a una proprietà lungimirante sotto questo aspetto. Ci stiamo però rendendo conto che dal punto di vista finanziario sarebbe necessario attingere meglio a possibilità di finanziamenti agevolati: il fatto di essere un’azienda di una certa dimensione, oltretutto localizzata al nord, ci svantaggia non poco da questo punto di vista. Stiamo perciò ragionando sulla possibilità di aprire qualche laboratorio nel sud Italia, per poter mettere in piedi qualche interessante progetto e usufruire dei finanziamenti a fondo perduto.