Dall’artigianato al terziario, dalla produzione al valore del marchio: così devono cambiare i poli manifatturieri italiani secondo il primo rapporto che li ha studiati
I distretti industriali sono a un bivio: farsi sopraffare dalla recessione economica o ripartire con una marcia in più sui mercati mondiali. Il primo Rapporto dell’Osservatorio nazionale dei distretti italiani mostra che l’80% degli imprenditori intervistati (su un campione di 92 gruppi con 188mila aziende) è pessimista e ritiene che la realtà produttiva in cui opera sia in difficoltà. L’analisi ha coperto quasi un terzo del nostro settore manifatturiero quanto a occupazione e valore dell’export; i settori maggiormente rappresentati sono l’abbigliamento, l’arredo per la casa e l’elettronica.
Timori per l’occupazione
I distretti, dalla loro nascita negli anni 50 e 60, hanno prima puntato sulla specializzazione produttiva per poi acquisire quote di mercato all’estero; il crollo del commercio internazionale è l’apice delle difficoltà già emerse negli ultimi anni, come la concorrenza con le multinazionali e i costi della manodopera. Il timore principale è l’occupazione: come ha ricordato il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello, il 42% delle imprese ha ridotto gli organici nel 2009 e il 25% proseguirà su questa strada nel 2010. «Il conto dei danni nel 2009, secondo gli imprenditori intervistati, è pesante», spiega Valter Taranzano, presidente della Federazione distretti italiani.
Per il 64% c’è scarsa liquidità, per quasi il 40% stanno calando bruscamente i rapporti di subfornitura, mentre per il 20% sono diminuite le quote di mercato estero. Tutto ciò sta erodendo gli investimenti e sfaldando gli anelli della filiera. Molte aziende riducono le attività affidate a terzi; aumentano i debiti, i ritardi nel pagare i fornitori e nell’acquistare nuovi macchinari e attrezzature. Ecco perché l’occupazione è sempre più a rischio. La metà del campione, inoltre, prevede una riduzione del fatturato del distretto nel 2010, mentre il 28% ritiene che i ricavi rimarranno stabili.
Dal distretto all’azienda: come risollevare la testa
Passando invece alle singole aziende, il pessimismo è più sfumato. Il 35% degli intervistati afferma che la propria attività si stia contraendo, il 36% che sia stazionaria e il 28% che stia addirittura crescendo. Ciò si lega a un altro dato rilevante: il 32% sostiene che le imprese del proprio distretto stiano cercando nuovi spazi di mercato, attraverso prodotti e tecnologie all’avanguardia. Si spiega così la sproporzione nel numero dei pessimisti: 80% contro 35% quando si passa dalla valutazione del mercato per l’intero distretto a quella per la singola azienda. Il 60% del campione ritiene che il distretto sia ancora il modello organizzativo migliore, ma il 32% lo considera meno efficace di alcuni anni fa e il 10% addirittura obsoleto.
Lo steccato tradizionale di ogni distretto sta allargando i suoi confini. Le aziende più forti e innovatrici stanno emergendo su quelle più deboli, puntando sul valore del marchio, sulla comunicazione e sulle opportunità del commercio internazionale. Il trasferimento della produzione in paesi dove la manodopera è meno costosa è spesso un ponte per conquistare clienti in zone prima trascurate: per esempio il Medio Oriente, il bacino meridionale del Mediterraneo, la Cina e il Vietnam. È questa la direzione della salvezza nel bivio per i distretti italiani. Gli esempi sono numerosi: il distretto dello sport a Montebelluna, l’occhialeria a Belluno, il mobile in Brianza, il tessile di Carpi, il cartario di Capannori.
I confini si allargano
Sono molteplici i fattori su cui puntare: alleanze commerciali, ampliamento delle reti distributive, design e progettazione, valori immateriali per trasformare i prodotti in status symbol, laboratori di ricerca. Il distretto si deve trasformare da centro artigianale a polo tecnologico, passando dalla produzione al terziario, dall’abilità puramente manuale all’investimento in pubblicità, promozione e immagine del marchio. Deve quindi acquisire una dimensione più internazionale, non solo nelle vendite (l’export è sempre stato un punto di forza per le nostre manifatture) ma anche in attività prima emarginate come il marketing e la comunicazione d’impresa. A costo, sottolinea il Rapporto, di sacrificare le imprese più piccole e certe abilità artigiane, come i ricami nel distretto tessile di Carpi, ormai affidati esclusivamente alle aziende cinesi.