Sono oltre 755mila le imprese italiane che investono in attività promozionali; intanto un decreto ministeriale ha modificato i criteri per le spese di rappresentanza
Le persone comuni li chiamano gadget, ma nel gergo degli esperti di marketing si definiscono “articoli pubblicitari e promozionali”. Che siano penne, magliette, cellulari o frullatori (e negli Stati Uniti si regalano anche le bistecche confezionate sotto vuoto), la spesa annuale delle aziende italiane per questi oggetti ammonta a circa sei miliardi di euro. È l’ultimo dato disponibile, del 2005, ricordato nell’incontro organizzato a Milano da Assoprom, l’associazione che riunisce i produttori e distributori del merchandising promo pubblicitario; destinato non solo ai clienti finali, ma anche a quelli potenziali, ai collaboratori e ai responsabili delle reti di vendita.
Sopra e sotto il livello dell’acqua
Così sono oltre 755mila le imprese italiane che hanno investito in attività promozionali, secondo una ricerca Cra del 2005, con vari scopi: regali aziendali (619mila), promozioni tramite oggetti (pto, 453mila), premi immediati (52.850), omaggi con punti fedeltà (37.750), concorsi a premio (15.100). Dei sei miliardi spesi in totale dalle aziende – mediamente 8.600 euro per ogni impresa – quasi tre sono confluiti nei regali, due miliardi nelle pto, 510 milioni per iniziative di fedeltà, 280 milioni per concorsi a premio. È un mercato iceberg, di cui si vede solo la punta e che nasconde una mole sommersa ben più consistente e spesso invisibile ai consumatori finali.
Giovanni Gallazzi, consulente di comunicazione e marketing promozionale, ha fornito qualche esempio. Prendiamo il mercato degli pneumatici per le automobili: ciascuno di noi può ricordare al massimo una dozzina di marche di gomme, quelle dei produttori più noti come Pirelli, Michelin o Goodyear. C’è, però, un centinaio di marche in commercio. La maggior parte di queste basa le sue vendite sulla fidelizzazione: i gommisti acquistano una certa quantità di pneumatici e li consigliano ai loro clienti, ricevendo dal produttore un qualche regalo o incentivo. Gallazzi ha ricordato anche i servizi bancari consigliati dai consulenti finanziari e le convenzioni tra le compagnie di autobus e le aree di sosta in autostrada.
Le nuove norme per le spese di rappresentanza
Un capitolo specifico riguarda le spese di rappresentanza (tra cui regali, feste, vitto e alloggio). La relativa legge è cambiata di recente: in vigore dal primo gennaio 2008 e precisata da un decreto ministeriale dello scorso novembre. Prima si poteva dedurre dalle tasse un terzo delle spese in cinque anni; ora, invece, si può dedurre in un solo anno l’intero valore di tali esborsi, a patto che rispettino i requisiti d’inerenza e congruità stabiliti dal decreto. I beni che costano meno di cinquanta euro sono interamente deducibili (la vecchia legge fissava un tetto di 25,82 euro). Così, per un bene che vale per esempio cento euro, il costo al netto delle imposte per l’azienda è ora di 68,60 euro, contro 89,53.
Per soddisfare l’inerenza, secondo il decreto, l’impresa deve regalare i beni per scopi promozionali o di pubbliche relazioni; l’oggetto, inoltre, deve generare (almeno potenzialmente) un ricavo economico per l’azienda, o essere coerente con le pratiche commerciali del settore in questione. Per quanto riguarda la congruità, ci sono dei limiti massimi alle spese di rappresentanza, da calcolare sui ricavi aziendali: 1,3% fino a dieci milioni di euro, 0,5% tra dieci e cinquanta milioni e 0,1% oltre i cinquanta. Nonostante la maggior chiarezza – anche per contrastare l’elusione fiscale – del nuovo decreto sulle spese di rappresentanza, rimane una certa ambiguità nel classificare, con riferimento ai requisiti d’inerenza e congruità, alcune operazioni commerciali delle aziende.