I confini di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo

La normativa in materia di licenziamenti: le regole, le norme, le condizioni, i confini.

Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato il datore di lavoro può licenziare con preavviso il lavoratore, in presenza di un giustificato motivo, ovvero di una motivazione del tutto avulsa dal comportamento manchevole del dipendente e, in particolare, in presenza di una situazione aziendale che imponga il recesso del datore di lavoro per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.
A parere della giurisprudenza di merito, la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento è subordinata al verificarsi di due condizioni:
– che il recesso sia stato determinato da obiettive esigenze organizzative o produttive aziendali;
– che il lavoratore licenziato non possa essere riutilizzato in altro settore aziendale (c.d. “repechage”).
Il giustificato motivo oggettivo ricorre non solo in caso di modifiche strutturali e organizzative, ma anche nel caso in cui sussista la necessità di ridurre i costi di esercizio eliminando l’onere eccessivamente gravoso costituito da un numero esuberante di dipendenti
La Corte di cassazione ha avuto modo di affermare che:
– il giustificato motivo oggettivo ricorre non solo in caso di modifiche strutturali e organizzative, ma anche, e soprattutto, nella necessità di ridurre i costi di esercizio eliminando l’onere eccessivamente gravoso costituito da un numero esuberante di dipendenti;
– il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non può essere meramente strumentale ad un incremento del profitto, ma deve essere diretto a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti;
– la superfluità del lavoro del dipendente licenziato deve essere valutata entro l’ambito dell’intera azienda, e non è quindi sufficiente la circostanza che le mansioni del medesimo siano state redistribuite tra gli addetti al reparto.
Non si può dimenticare che, per espressa previsione di legge (art. 5 della L. n. 604/1966), il datore di lavoro ha il pesante onere probatorio, laddove il licenziato impugni il licenziamento e chieda al giudice una pronuncia sulla sua legittimità, di fornire in giudizio elementi di prova tali da suffragare la fondatezza dei propri assunti per mezzo di elementi positivi, obiettivi e circostanziati. La decisione del datore di lavoro non è sindacabile in termini di opportunità: il giudice non può spingersi al punto da valutare il merito della scelta, la sua con divisibilità economica, la sua utilità sul piano organizzativo e così via (una siffatta verifica infatti è preclusa dal principio costituzionale (art. 41) che vuole libera l’iniziativa economica privata, ma solo la veridicità della stessa.
A tal proposito la Corte di Cassazione, con una sentenza del 2001, ha sottolineato che il motivo oggettivo di licenziamento ai sensi dell’art 3 della L. n. 604/1966, richiede che le ragioni inerenti all’attività produttiva, sia che derivino da esigenze di mercato, sia che conseguano invece a riorganizzazioni o ristrutturazioni operate dall’imprenditore, siano tali nella loro oggettività e non in forza di un atto unilaterale del datore che presenti margini di arbitrarietà. E ancora nel 2002 è stato affermato che il licenziamento è legittimo quando è giustificato da un riassetto organizzativo non pretestuoso e strumentale, attuato per fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti che influiscono decisamente sulla normale attività produttiva, imponendo un’indilazionabile ed effettiva necessità di riduzione dei costi per la più economica gestione dell’azienda.
La motivazione del licenziamento deve essere sufficientemente specifica e completa, ossia tale da consentire al lavoratore di individuare con chiarezza e precisione la causa del recesso e di esercitare un’adeguata difesa. Ma non basta. Visto che il licenziamento rappresenta comunque una misura estrema, occorre anche che il recedente dimostri di non poter fare ricorso a soluzioni alternative meno drastiche e traumatiche.


Obbligo del preavviso
Il datore di lavoro all’atto del licenziamento per giustificato motivo ha l’obbligo – a norma dell’art. 2118 c.c. – di dare un periodo di preavviso, la cui durata è stabilita, per la generalità dei dipendenti, dalla contrattazione collettiva che la determina in funzione dell’anzianità di servizio e della categoria del lavoratore, ferma restando la possibilità per le pattuizioni individuali di prevedere periodi di preavviso più lunghi di quelli stabiliti nei contratti collettivi. Il computo del periodo di preavviso deve avvenire – secondo un orientamento della giurisprudenza di merito – in base ai giorni di calendario e non in relazione alle effettive giornate di lavoro, salvo che dal tenore dei contratti collettivi o individuali applicabili al rapporto di lavoro si desuma diversamente. Il periodo di preavviso decorre dal momento in cui è pervenuta al lavoratore la comunicazione del licenziamento, salvo diversa e più favorevole previsione dei contratti collettivi.


Forma dell’atto di licenziamento
In quanto negozio unilaterale recettizio, il licenziamento si perfeziona nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore di lavoro giunge a conoscenza del lavoratore, anche se l’efficacia viene differita in un momento successivo. Il licenziamento deve essere intimato dal datore di lavoro, da un suo rappresentante legale ovvero dai soggetti che ne sono legittimati sulla base della distribuzione del potere di gestione del personale fissata dall’organigramma aziendale. La giurisprudenza ha ritenuto, peraltro, che il licenziamento intimato da un soggetto non legittimato non è nullo, bensì soltanto annullabile su azione del datore di lavoro, che può – alternativamente – ratificarlo a norma dell’art. 1399 c.c. (che disciplina la ratifica del rappresentato degli atti compiuti dal rappresentante senza potere). In applicazione dell’art. 2, comma 1, L. n. 604/1966, il datore di lavoro deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro, salvo ulteriori requisiti di forma stabiliti dalla contrattazione collettiva. Il requisito della forma scritta dell’atto di licenziamento non è soddisfatto da forme di comunicazione equipollenti. È pertanto esclusa la legittimità di licenziamenti portati a conoscenza del lavoratore interessato – ad esempio – mediante affissione nei locali dell’impresa o sulla porta degli uffici ovvero sulla bacheca del cantiere. Al riguardo è stato precisato che il datore di lavoro non ha l’obbligo di usare particolari formule, ma può comunicare al lavoratore la sua volontà di licenziare anche in forma indiretta, purché espressa in modo chiaro e per iscritto. In particolare è stato ritenuto dalla Corte di cassazione che la consegna al lavoratore dell’atto scritto di liquidazione delle spettanze di fine rapporto, tanto più ove questo risulti interrotto di fatto, contiene in sé la inequivoca manifestazione della volontà di risolvere il rapporto di lavoro, con la conseguenza che dalla data di tale consegna decorre il termine per impugnare il licenziamento.
Il licenziamento intimato senza l’osservanza del requisito della forma scritta è nullo e, dunque, è inidoneo a determinare l’estinzione del rapporto di lavoro: ne consegue il diritto del lavoratore ad esperire le forme di tutela previste dalla legge in caso di licenziamento illegittimo. Peraltro, con particolare riferimento alle aziende con meno di 16 dipendenti – e, si deve ritenere, alle aziende agricole con meno di 6 dipendenti – la Corte Costituzionale ha ritenuto che al licenziamento intimato oralmente nelle stesse aziende consegue non l’applicazione dell’art. 8, L. n. 604/1966 (c.d. tutela obbligatoria), ma il diritto al proseguimento del rapporto di lavoro.  Ciò perché, da un lato, la c.d. tutela obbligatoria presuppone l’impugnazione dell’atto risolutorio del rapporto di lavoro e, d’altro lato, il licenziamento verbale, non producendo alcun effetto, non incide sulla continuità del rapporto stesso e quindi sul diritto del lavoratore alla retribuzione fino alla data di riammissione in servizio.
Inoltre è stato precisato che «nel determinare l’ammontare della somma spettante al lavoratore per le mensilità pregresse, il giudice deve valutare se il comportamento del ricorrente successivo al licenziamento sia stato indicativo della mancanza di volontà di mettere le proprie energie lavorative a disposizione del datore di lavoro».
Il rinnovo da parte del datore di lavoro di un licenziamento nullo per vizio di forma può intervenire validamente solo nel rispetto dei requisiti formali prescritti dalla legge.

Impugnazione del licenziamento
Il licenziamento non sorretto da giustificato motivo, o intimato senza rispetto della prescritta procedura, o contrario a norme imperative (es. perché discriminatorio, o comminato nei periodi in cui non è possibile recedere per tutela della lavoratrice madre) può essere impugnato entro sessanta giorni dal ricevimento della comunicazione. L’impugnazione è di norma proposta dal lavoratore personalmente, ovvero dal sindacato cui questi è iscritto o da un legale munito di procura speciale. Per impugnare il licenziamento è sufficiente qualsiasi atto scritto (di norma una lettera) con cui il lavoratore comunichi al datore di lavoro la sua intenzione di contestare la legittimità del provvedimento espulsivo. Tale impugnazione deve avvenire entro il termine di sessanta giorni dalla data del licenziamento ovvero dalla successiva data di comunicazione dei motivi, qualora richiesti (art. 6, L. n. 604/66). Il termine ha natura decadenziale: se il licenziamento non è impugnato, si decade dalla possibilità di richiedere al Giudice del lavoro l’accertamento della illegittimità del provvedimento datoriale e la conseguente condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno.
Secondo la giurisprudenza:
– il lavoratore può rinunciare all’impugnazione del licenziamento o revocare l’impugnazione già proposta anche mediante comportamenti concludenti quali l’accettazione del t.f.r. accompagnata dalla mancata comparizione del lavoratore alla riunione del collegio di conciliazione, o il decorso di diversi anni tra il licenziamento e la presentazione del ricorso giudiziario;
– l’accettazione del licenziamento da parte del lavoratore non comporta di per sé la rinuncia agli effetti giuridici scaturenti dal licenziamento stesso e ai relativi diritti, tra cui quello della sospensione e prolungamento del termine di preavviso in caso di sopraggiunta malattia del lavoratore stesso.

Il caso: licenziamento del lavoratore che rifiuti la traformazione a part-time
La L. n. 863/1984 non si era espressa riguardo al rifiuto del lavoratore nel caso in cui gli fosse stata proposta la trasformazione  del rapporto di lavoro da full time a part time o viceversa, al contrario l’art. 5 del D.Lgs. n. 61/2000, tratta espressamente l’argomento e a tal proposito stabilisce che «il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di  lavoro a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno non cosituisce giustificato motivo di licenziamento…». La norma in questione non è altro che l’espressione di una consolidata giurisprudenza ed anche di un’autorevole dottrina, le quali hanno sostenuto la tesi secondo cui la quantità della prestazione lavorativa inerisce l’oggetto del contratto di lavoro, così come la mansione e il luogo di lavoro, e come tale non può essere modificata unilateralmente dal datore di lavoro senza il consenso del lavoratore.
Il principio fondamentale su cui si basa l’art. 5 è quello enunciato a livello comunitario e internazionale, della volontarietà della libera scelta da parte del lavoratore del regime di orario più adatto alle proprie esigenze personali, seppur compatibilmente con le esigenze aziendali. Nulla toglie però che si possa comunque configurare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel caso in cui il datore dimostri la necessità di ricoprire l’intero arco della giornata lavorativa, l’inutile ricerca di altro personale a tempo parziale da collocare in posizione complementare, giungendo così in ultima analisi a dimostrare l’incompatibilità tra l’assunzione di personale a tempo pieno e il mantenimento in servizio del lavoratore a tempo parziale. L’orientamento consolidato della Suprema Corte si basa sul principio generale secondo cui non è possibile modificare unilateralmente l’orario di lavoro (sia da part-time a full-time che viceversa) stabilito nel contratto. In sostanza il datore di lavoro non ha alcun ius variandi unilaterale in proposito. In caso di soppressione “parziale” del posto di lavoro, il giustificato motivo di licenziamento ricorre solo dopo che sia stata esclusa, per ragioni tecnico produttive, la possibilità di continuare ad utilizzare il dipendente altrove in azienda per la parte di prestazione lavorativa liberatasi, ovvero in caso di indisponibilità del lavoratore medesimo a svolgere l’attività lavorativa residuata con rapporto part-time.


Tabelle riepilogative


1. FORMA DEL LICENZIAMENTO






2. ONERE DELLA PROVA: caratteri della legittima motivazione





(Per maggiori approfondimenti vedi Novecento Lavoro, Novecento Media)

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