Una direttiva del 2004, voluta dal Ministro per l’Innovazione e le Tecnologie, Lucio Stanca, costituisce una decisa spinta verso la generalizzata adozione dell’open source nelle Amministrazioni centrali e locali. I modelli vengono dall’estero, ma l’Italia non sta a guardare.
Le esperienze di Amministrazioni pubbliche che, soprattutto negli Usa e in Germania, hanno da tempo sperimentato i benefici delle architetture open source non mancano. Anche in Italia è stata affrontata la questione del software aperto, grazie a una commissione nominata dal Ministro per lInnovazione e le Tecnologie, Lucio Stanca. Lo scopo era di predisporre una corretta valutazione delle possibilità di utilizzo del sorgente aperto nella Pa. Sulla base dei risultati del lavoro della commissione, nel dicembre 2003 è stata approvata una direttiva, che evidenzia come, tra i criteri di valutazione delle tecnologie, deve essere tenuto in conto anche "linteresse di altre Amministrazioni al riuso di programmi informatici, dalla valorizzazione delle competenze tecniche acquisite allinteroperabilità". Particolare evidenza viene posta sui requisiti tecnici da adottare nelle valutazioni comparative. Tra queste, spicca linvito a privilegiare soluzioni che assicurino la cooperazione applicativa allinterno della Pa, oltre allobbligo di utilizzare programmi che permettano di esportare dati e documenti in almeno un formato di tipo aperto.
Il futuro nel desktop
"Esiste, però, uno scollamento tra le dichiarazioni di intenti della Pa in materia di adozione dellopen source e laspetto pratico – puntualizza Andrea Di Maio, research vice president di Gartner -. La penetrazione di Linux, Apache e, più in generale, dello stack applicativo, sta seguendo più o meno gli stessi percorsi del settore privato. Quello che fa la differenza, nel pubblico, è lincoraggiamento allutilizzo dellopen source anche sul lato dei sistemi operativi desktop e delle applicazioni enterprise, quali Erp o verticali specifici. Alla base cè lesigenza concreta di fare in modo che quanto acquistato da un ente possa essere riutilizzabile da altre entità della Pa, senza costi aggiuntivi. In realtà, questo attiene al buon senso più che allopen source e può essere ottenuto anche attraverso accordi specifici con i vendor di soluzioni proprietarie".
Gli sviluppi più probabili
Nel 2003, stima il Cnipa (Centro Nazionale per Iinformatica nella Pa), il 54% circa delle Amministrazioni (18 centrali e 10 enti pubblici) ha utilizzato a vario titolo software free per i propri sistemi. Occorre prestare attenzione alla portata innovativa dellopen source, soprattutto sotto il profilo culturale, organizzativo e tecnico. Le iniziative della Pa potrebbero, infatti, creare la massa critica necessaria a garantire al sorgente libero una presenza durevole sul mercato. Bisogna, però, rimuovere gli ostacoli alla diffusione di Linux e compagni. Tra i più "pericolosi" il diffuso ricorso alla brevettazione dei software, il rischio di chiusura dei prodotti più noti in versioni commerciali e i meccanismi di protezione forte, che potrebbero limitare luso di prodotti "non certificati" su alcuni hardware.
"Lunico concreto esempio di una piattaforma di scambio di applicazioni open source nella Pa è Adullact, in Francia – conclude Di Maio -. Si tratta di un bacino allinterno del quale le Amministrazioni hanno a disposizione software free già acquisito, quindi liberamente riutilizzabile. Di fatto, si tratta di tornare allinsourcing, di riappropriarsi del proprio sviluppo prodotti dopo anni di esternalizzazione. Cè da domandarsi se, allinterno della Pa italiana, le risorse siano effettivamente coerenti con questo tipo di decisioni".