È il mezzo migliore per esportare le nostre eccellenze. Lo hanno capito quelle imprese italiane early adopter. Collochiamo con Lorenzo Gonzales di Hp il fenomeno nel giusto alveo aziendale.
Lorenzo Gonzales è Innovation senior consultant di Hp da circa quattro anni.
Per svolgere il compito che sta sotto questa carica li ha passati, come dice lui, “facendo da antenna, attiva e reattiva, con i clienti”, spesso in contatto con l’innovation center di Hp, lavorando anche su progetti europei.
D: Quando ha parlato per la prima volta di cloud ai clienti?
G: Dopo che Bezos ne dette la definizione, fine 2007, inizio 2008.
D: Qual era il tono?
G: Esplorativo. Ricorreva l’evoluzione del modello di virtualizzazione e di applicazioni a servizio.
D: Progetti riscoperti, dunque. Ma quando il modello ha fatto un salto in avanti?
G: La virtualizzazione è stata il precursore più vicino al cloud, per flessibilità. L’evoluzione c’è stata quando sono state accettate le risorse condivise per più ambienti, industrializzando il fenomeno.
D: Oggi a che punto siamo?
G: C’è stata un’evoluzione regolare, che ha portato ad avere infrastrutture convergenti, con automazione, diciamo, da scaffale. Risultato: oggi si usano sistemi già concepiti per stare nel cloud. E ci si focalizza non tanto sul come, ma sul cosa fare nel cloud.
D: Quindi, cloud per fare cosa?
G: Per standardizzare, partendo dalle tecnologie di mercato, per arrivare alle applicazioni e i processi di business. Questi vanno sempre affrontati caso per caso, ma per industry ci sono delle coerenze.
D: Ha senso fare una classifica degli obiettivi da raggiungere con il cloud?
G: Si, partendo dai servizi di workload analysis, condotti con i Cio e con il business. Si trattando aspetti finanziari, operativi, di sviluppo. Si fa una roadmap, non scolpita nel marmo, ma adattabile a seconda degli obiettivi raggiunti e dei cambiamenti d’ambiente.
D: Il badare alle cose da fare, dunque, giustifica il mezzo…
G: Emerge da una recente ricerca che abbiamo condotto su oltre 900 It decision maker di grandi aziende, di cui cento in Italia. Prima c’è la riduzione dei costi, ma gli obiettivi del fare sono ben chiari. E specie in Italia, dove c’è una sensibilità accentuata sul senso dell’investimento. Come nei progetti di mobility o di mission critical. O anche di customer facing, dove il cloud porta facilità di gestione dei canali di contatto e dei picchi.
D: Pare emergere una compagine imprenditoriale italiana molto coraggiosa…
G: Lo è. Gli early adopter italiani sono da sempre significativi. Poi noi abbiamo una grande massa di prudenti.
D: Quali servizi cloud gli proponete?
G: Quelli per la gestione di tutte le applicazioni enterprise e di imaging e printing. Come ulteriore passo avremo i Cloud Services, in beta in America.
D: Cloud Services, uguale piattaforma e storage in cloud. Ideali per l’Italia?
G: L’Italia è un mercato particolare, in cui la criticità del fattore sicurezza è altra. Non è un problema, ma una soglia di attenzione. Pragmaticamente, si vuole avere sempre ben chiaro il garante del dato. Però le potenzialità sono enormi. Pensiamo agli effetti dello storage cloud nella dematerializzazione per la Pa e al disaster recovery per le aziende.
D: Lo storage cloud è quasi già un fenomeno di consumerization. Il Cio non dovrebbe prenderne atto?
G: Si, gli utenti lo usano già. Il Cio non dovrebbe limitarsi a impartire policy, ma comprendere i rapporto rischi-benefici e trovare la corretta posizione.
D: Allora c’è un problema di governance?
G: La governance ha effetti positivi se si riconosce all’It un ruolo forte. Deve fare un percorso di maturità. Il cloud ha un valore che va oltre il day by day: fa capire cosa è una commodity e quale valore porta all’azienda.
D: La spesa It enterprise pare quest’anno essere in calo. Anche colpa del cloud?
G: Le aziende hanno creato un po’ meno. Ma il dato è attenuato dal fatto che con il cloud si è speso meglio. Il problema vero è che, almeno in Italia, si deve fare più, It e business. E il cloud è il mezzo migliore per esportare le nostre eccellenze.
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