“Il problema non è semplicemente il volume di dati che circolano nelle imprese. Il problema è la capacità, o, per meglio dire, la non capacità di dare il giusto valore ai dati”.
Con queste parole Massimiliano Ferrini, country manager Italy di Veritas commenta i risultati di una recente indagine promossa dalla società.
Un’indagine dalla quale emerge come in Italia e più in generale in tutta l’area Emea le aziende abbiano sviluppato un enorme Databerg. Già, una montagna di dati, ma anche un iceberg di dati, dal momento che in questa definizione rientrano non solo i dati di business, ma anche dati sconosciuti, inutili e costosi la cui minacciosità, per l’appunto proprio come in un iceberg, è visibile solo in piccola parte.
Il primo passo, sostiene Ferrini, sarebbe proprio comprendere qual è la natura dei dati che popolano le infrastrutture.
Nella ricerca, condotta in tutta l’area Emea, i dati vengono suddivisi in tre famiglie distinte: i Dati Business Critical, ovvero quelli indispensabili per l’operatività aziendale, da proteggere e gestire assegnando specifiche responsabilità “a figure specializzate come i data scientist”, commenta Ferrini; i Dati Rot, acronimo che nasconde dati Redundant, Obsolete or Trivial, vale a dire ridondanti, obsoleti o ininfluenti, per i quali si richiede una periodica “pulizia”; i Dark Data, termine da non confondere con Dark Web, ovvero dati non chiaramente identificati, nei quali possono sì nascondersi dati business critical esattamente come i dati Rot, ma tra i quali si potrebbero altrettanto sicuramente celare anche dati con conformi o non legali, che vanno a costituire una delicata area di rischio nel sistema aziendale.
Ecco, il punto che emerge dalla ricerca: oltre la metà del Databerg si compone di Dark Data, per la precisione il 54%. L’analisi dei dati teoricamente utilizzabili, inoltre, mostra che un ulteriore 34% è composto da dati insignificanti, obsoleti o ridondanti, quindi totalmente inutili. Appena il 14% di tutti I dati viene attualmente riconosciuto come un asset utile al business aziendale.
Ma c’è di più. Dal Databerg Report 2015 di Veritas emerge anche una valutazione economica degli sprechi e il risultato è impressionante: per conservare 500 TB di dati, una quantità tipica per una media azienda, il costo di memorizzazione è mediamente di ben 451.000 euro annui.
Ma da cosa nasce il Databerg?
Ferrini spiega: “La crescita senza controllo dei dati nasce da una serie di erronee convinzioni. Non si tratta semplicemente della tanto mitizzata gratuità dello storage, quanto di una serie di valutazioni sbagliate, a partire dal fatto che a tanti dati corrisponda tanto valore o che, per l’appunto, non vi sia distinzione tra i diversi tipi di dato. Per troppo tempo le imprese hanno perseguito una strategia basata sul volume dei dati e non sul loro valore. E questo impedisce alle imprese di ottenere un reale valore aggiunto dai dati”.
Per quanto riguarda le realtà italiane, i comportamenti non sono virtuosi a qualunque livello della scala gerarchica, dai C-level, ancorati a una concezione sbagliata del valore del dato, ai dipendenti.
Da un lato, infatti, il 34% dei dipendenti italiani tratta il server aziendale come fosse di sua proprietà, caricandovi foto, copie della carta d’identità o video per la rete aziendale. Questo è uno dei peggiori risultati dell’area Emea e riflette una scarsa disciplina nel comportamento degli utenti.
Dall’altro abbiamo poi il 57% delle imprese che ancora non ha una strategia per dare un valore economico ai propri dati e conservano qualsiasi cosa. I costi sono valutati concentrandosi semplicemente sul volume dei dati. Meno del 20% di loro ha iniziato a raccogliere informazioni sui dati.
Per avere risparmiare in tempi brevi si affidano al cloud senza una strategia, quindi non valutando voci quali calcolo del follow up dei costi, cambio di fornitore o ritiro dall’ambiente cloud in caso di emergenza.