La notizia è di quelle forti: un incubatore di startup, che fino a ieri accedeva alle forti agevolazioni di legge se disponeva di 400 metri quadri di uffici, dall’oggi al domani ne deve avere 500, altrimenti nisba.
E poiché nella maggior parte dei casi già arrivare a 400 era stato un salto mortale, ecco che questi luoghi della nuova imprenditoria sono minati da un cambiamento del tutto inatteso. E che avrà certo effetti deleteri sull’attrattività di capitali esteri: quand’anche la cosa rientrasse, il solo dubbio che si possano mettere in piedi iniziative del genere fermerà molti investitori internazionali presenti e futuri.
La revisione dei parametri catastali rientra in un più ampio quadro di adempimenti (Ndr: abbiamo chiesto i dettagli al Mise, che non aveva una risposta pronta, e aggiorneremo questo articolo con i dettagli), ma il punto dolente della metratura è secco ed inattaccabile. Ed è un danno forte per il sistema.
Già l’Italia, nonostante i continui proclami sulla “legge migliore”, “nazione delle startup” e via dicendo, è ultima tra i grandi Paesi -come pure nel crowdfunding– per cercare investitori nelle fantastiche idee dei suoi geniali abitanti.
Certo sorprende che nel 2017 si possano cambiare in corsa le regole che determinano la credibilità del sistema Paese per la vita delle startup innovative.
L’Europa è il regno delle regole, degli accordi generati da secoli di contrattazioni e guerre, di misurazione del calibro delle banane da importare. E l’Italia è il luogo fondante delle sue infrastrutture e poi della sua cultura, per cui l’espressione al cubo della farraginosità delle sue regole.
Pare che la giustificazione del Ministero sia stata la necessità di separare incubatori seri da cacciatori di fondi. La revisione dei parametri era inserita nell’impianto di legge, dicono al Mise, ma certamente non era il caso di farla ex abrupto. Immaginiamo che ci saranno verifiche, conferme o smentite, tempi e modi per adeguarsi, senza perdita del diritto acquisito. Ma il vulnus dell’incertezza resta, e a tutti i livelli.
Diciamolo apertamente: le cose non si fanno così. Invece di avere personale competente che valuti progetti e risultati, il sagace legislatore ha tirato fuori un numeretto catastale. Il dubbio che in realtà tutto ciò sia un modo per ritardare o ridurre o rimodulare i fondi a disposizione, c’è.
E l’industria 4.0?
Ma il fatto è ancora più grave se si esce dallo specifico: da oggi dobbiamo ritenere che le norme si possano cambiare in corsa. Proviamo a fare ipotesi sul caso peggiore. Sul tavolo c’è anche il decreto Industria 4.0, nel quale stanno confluendo fondi di vario genere (per dirne una, gli 800 milioni per la banda larga, anzi ormai XL). Anche lì il disco è il solito: l’impianto normativo, gli sgravi fiscali, la legge più bella del mondo. E se il titolare di una piccola azienda in crisi si decide ad investire in macchinari per lo sgravio del 250% negli anni futuri, o investe in una startup confidando sulle detrazioni d’imposta, siamo sicuri che nessuno dica poi che le regole sono cambiate e che il vantaggio non c’è più? Ovviamente la startup nella quale si è investito, e che presumibilmente erogherà i servizi promessi, potrebbe far parte di un incubatore dichiarato illegale per la metratura e questo la farebbe ritardare, trasferire o anche fallire: niente sgravio, quindi, e niente servizi. Uno svantaggio competitivo.
Al ministero almeno hanno capito la differenza tra un Angel ed un VS. Pensano che in Italia ci siano solo VC perchè non vedono investitori con le ali.
A dirla tutta, ci vorrebbero più investimenti, più contatti, più mentor, più capitali e più formazione, non più spazio.