La televisione rimane il mezzo privilegiato per gli investimenti pubblicitari, nonostante la crisi e i costi più elevati
Una bella attrice, uno sportivo famoso e uno slogan (più o meno) azzeccato: ancora oggi gran parte delle grandi aziende italiane ricorre a questo tipo di pubblicità per reclamizzare i propri prodotti e conquistare i consumatori, facendo affidamento sull’opera di convincimento di massicce campagne di martellamento televisivo. Una formula che si trascina un po’ stancamente dagli anni 80 ma che oggi, col proliferare dei New media e il cambiamento di abitudini dei consumatori, appare palesemente inadeguata. Di questi temi si è parlato in occasione della VIII giornata della comunicazione d’impresa organizzata da Assolombarda.
Il ruolo predominante della Tv
Il mercato pubblicitario nazionale vuole dimenticare in fretta un pessimo 2009 (-13%, anche se i segnali relativi ai primi sette mesi del 2010 raccontano di investimenti in ripresa), ma la soluzione giusta per ripartire non è semplice da individuare. Quello che appare condiviso da tutti gli addetti ai lavori è che la rapida proliferazione dei nuovi media abbia modificato radicalmente lo scenario della comunicazione d’impresa: questo pianeta appare oggi molto più frammentato rispetto a pochi anni fa e, dunque, allo stesso tempo più ricco di opportunità ma anche più complesso da gestire. Forse proprio la paura di questa complessità spinge ancora oggi le aziende italiane a investire la larga maggioranza dei propri bilanci pubblicitari nella tv (intorno al 60%, caso unico nel contesto europeo), mentre la quota di Internet rimane ancora piuttosto bassa, nonostante una crescita del 7% nel brutto contesto dello scorso anno. «Nonostante gli addetti ai lavori del Web considerino importante la crescita del 2009 – ha spiegato Paolo Duranti di Nielsen – a mio modo di vedere il dato è deludente, perché, proprio in una fase di crisi, un mezzo economico come Internet avrebbe dovuto conoscere un incremento almeno del 40%. Questo mi fa pensare che ci vorranno tanti anni perché i new media raggiungano i numeri dei mezzi di comunicazione tradizionali».
Non solo adolescenti sul Web
Il costo delle campagne pubblicitarie varia infatti a seconda del mezzo utilizzato: in media per un buon advertising televisivo si spendono circa 430.000 euro, per i quotidiani 51.000 mentre per il Web possono bastare 40.000 euro. Questo spiega perché i piccoli inserzionisti (in costante aumento negli ultimi anni ma che valgono soltanto il 25% del mercato) scelgano soprattutto Internet e quotidiani per le loro comunicazioni, mentre i 365 principali top spender (che controllano il restante 75%) privilegino l’advertising televisivo. Alla base della scarsa passione dei grandi per il mondo di Internet è probabilmente un problema culturale, forse il timore che il mezzo sia efficace soltanto per comunicare con la fascia più giovane del proprio target (paura probabilmente alimentata dai web video pubblicitari di successo che si vedono in convegni di questo tipo, perlopiù adatti ad adolescenti cresciuti a pane e Mtv, ndr). Eppure in Italia la fetta più grande di utilizzatori di Internet (45,7%) ha tra i 35 e i 54 anni e sarebbe dunque un obiettivo ideale anche per i top spender.
Il caso Carrera
Un nome importante italiano del fashion italiano, Carrera, ha iniziato a scommettere sul Web (destinando una quota pari al 14% degli investimenti in comunicazione) e sta iniziando a intravedere i primi risultati. In cinque mesi la pagina ufficiale del gruppo su Facebook può già contare su 90.000 fan altamente profilati e fidelizzati, mentre l’attenzione degli internauti per il sito Web aziendale supera i 4 minuti per visita. Inoltre, con un investimento di poche decine di migliaia di euro, Carrera è riuscita a piazzare un paio di suoi occhiali nel video “Bad Romance” della cantante pop Lady Ga Ga; il video è stato poi visto ben 284 milioni di volte su YouTube, con un ritorno di immagine notevole. Ma, proprio come testimonia questo singolo caso di successo, il punto dolente di Internet (e soprattutto della sua versione Web 2.0) rimane sempre lo stesso: se può essere relativamente facile coinvolgere i consumatori per oggetti fashion o di culto, molto meno lo è per aziende che producono oggetti semplici e di uso comune. Difficile pensare a community di appassionati per aziende che lavorano in ambito B2b o nel settore dell’igiene per la casa.