L’export tricolore verso il gigante asiatico, seppure in crescita, è ancora lontano dai numeri di Germania e Francia
Da un po’ di tempo a questa parte di quote e dazi non si parla quasi più: in una fase in cui si tenta disperatamente di uscire dalla crisi è difficile rinunciare ai buoni rapporti con un gigante dell’economia come quello cinese. Questo spiega l’attenzione che sta accompagnando la missione cinese organizzata da Confindustria, Ice, Abi e Governo, a cui stanno partecipando (30 maggio-4 giugno) oltre 600 aziende nazionali.
La corsa del dragone
La Cina, secondo un dossier pubblicato dal ministero dello Sviluppo economico, pur avendo dovuto registrare nel biennio 2008-2009 un rallentamento rispetto ai tassi di crescita a due cifre degli anni precedenti, nell’ambito dei paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina) è il paese che meglio ha saputo reagire alla crisi internazionale. Nei primi tre mesi del 2010 il Pil del Dragone ha registrato un aumento dell’11,9%, in linea, al momento, con le stime della Banca Mondiale, che prevede una crescita annuale stimata tra l’8 e il 10%. Nonostante questi numeri imponenti, il nostro Paese fatica a ritagliarsi un ruolo da protagonista: nel 2009 l’Italia si è collocata al 22° posto tra i paesi fornitori della Cina, con un export di 6.651 milioni di euro, registrando comunque un incremento del 3,4% rispetto al 2008 in un anno catastrofico per il nostro commercio estero (-20,7%). Meglio di noi fanno due nostri competitor storici come Germania e Francia, rispettivamente al 5° e al 18° posto con un export di 36.431 milioni di euro per Berlino e di 7.870 milioni per Parigi.
Imprese sempre più in loco
I segnali positivi, comunque, non mancano: secondo il dossier ministeriale, negli ultimi tempi si sta assistendo a un maggiore posizionamento delle aziende italiane sul mercato cinese, accompagnato anche dalla scelta di produrre stabilmente in loco. Questo fenomeno interessa soprattutto alcuni settori quali l’alimentare, l’industria meccanica, elettrica e farmaceutica, abbigliamento, calzature, lusso e gioielleria. Ad oggi sono circa 2.000 le imprese italiane stabilitesi in Cina (esclusa Hong Kong), anche se per molte di loro la presenza è limitata a un ufficio di rappresentanza, ma non mancano show room, uffici vendita, centro servizi con partner locale, Wholly Foreign Owned Enterprise (Wfoe) e veri e propri stabilimenti produttivi. Secondo il rapporto del ministero dello Sviluppo economico, la produzione in loco diventerà comunque con il tempo una scelta sempre più consigliabile per le imprese italiane che vogliono competere nel mercato cinese.
I mercati più promettenti
Ma in quali mercati? Il rapporto suggerisce di puntare con decisione sui beni di consumo: l’offerta di prodotti italiani è ben rappresentata nelle metropoli, mentre nelle città di seconda e terza fascia è poco presente e dovrebbe dunque essere potenziata per cogliere le opportunità derivanti dal progressivo arricchimento della popolazione. Nei prossimi anni è infatti previsto un incremento del mercato dei beni di lusso superiore al 20% annuo, derivante da un corrispondente allargamento della fascia del ceto medio-alto. Questo fenomeno rappresenta una buona opportunità per il made in Italy, soprattutto per i settori pellettiero, calzaturiero, dell’abbigliamento (anche sportivo), dell’occhialeria e dell’arredamento. Opportunità per le nostre aziende esistono anche nei beni strumentali, per via della sempre più urgente necessità di rinnovamento degli impianti e delle macchine utensili delle industrie locali. Grandi prospettive offrono anche il comparto infrastrutture, energia e ambiente (oltre 200 miliardi di investimenti annui), l’edilizia, l’agro-alimentare (per merito del graduale cambiamento delle abitudini alimentari, che stanno avvicinandosi a quelle occidentali) e il farmaceutico.
I problemi del mass market
Uno scenario simile è tratteggiato anche dal rapporto “La Cina nel 2010: scenari e prospettive per le imprese”, elaborato dal Centro Studi per l’Impresa (Cesif) costituito in seno alla Fondazione Italia Cina. Secondo lo studio, il successo delle imprese italiane sul mercato di massa cinese dipenderà da fattori chiave come qualità a basso costo, flessibilità e dinamismo, innovazione di prodotto, distribuzione efficiente, marketing & branding efficaci e una comprensione delle necessità del consumatore cinese. Ma i margini di profitto delle imprese straniere – avverte il Cesif – saranno sottoposti a una maggiore pressione nei prossimi anni a causa della concorrenza delle aziende locali, favorite dal maggior sostegno del Governo di Pechino. L’aumento dei costi operativi, trainati dall’incremento dei costi relativi a risorse umane, terreni, affitti, materie prime e servizi di pubblica utilità, ridurrà ulteriormente i profitti degli operatori stranieri. Una strategia alternativa potrebbe essere quella di concentrarsi sul segmento di fascia alta o sui mercati di nicchia. La sfida – secondo il Cesif – consiste nel trovare il posizionamento giusto rispetto ai leader di segmento, poiché i consumatori cinesi sono ancora molto influenzati e attratti dai marchi più noti. Le decisioni di acquisto si basano infatti sul percepito innalzamento dello status e dell’immagine del consumatore, piuttosto che sul valore intrinseco o sulla qualità dei beni.