La strategia europea sul clima punta su fonti rinnovabili e investimenti tecnologici, creando opportunità di business (ma anche costi aggiuntivi) per le aziende private
Leggerezza e molteplicità sono i cardini della ricetta europea sul clima per adempiere il protocollo di Kyoto. Questa, in sintesi, è la visione di Frank Raes, ricercatore della Commissione europea all’istituto Jrc a Ispra, intervenuto al convegno su cambiamenti climatici e opportunità per le imprese, organizzato dalla Camera di commercio milanese. Raes ha ripreso due concetti delle Lezioni americane di Calvino, utilizzate dallo scrittore nel 1985 per tracciare il futuro della letteratura: ma leggerezza e molteplicità servono anche a riassumere la strategia ambientalista dei paesi industrializzati, basata su fonti rinnovabili, risparmio energetico e mix di tecnologie per ridurre l’inquinamento.
Kyoto e dintorni: obiettivi e costi del business “verde”
Il protocollo di Kyoto, entrato in vigore il 16 febbraio 2005, costituisce lo sfondo per ogni politica di riduzione delle emissioni nocive, come l’anidride carbonica. L’obiettivo per il periodo 2008-2012 è calare del 5,2% rispetto l’anno di riferimento (1990). L’Europa, ha poi ricordato Raes, punta verso il traguardo di contenere l’aumento medio delle temperature a 2 gradi entro il 2020, riducendo i gas serra del 20% e aumentando sempre del 20% il consumo energetico da fonti rinnovabili. Ogni paese ha negoziato in base a Kyoto un tetto massimo di emissioni, con l’impegno a tagliare le scorie inquinanti in una certa percentuale; per l’Italia è del 6,5% in confronto al 1990.
La ricetta di Calvino-Raes è quindi una risposta alle sfide ecologiche della civiltà post industriale; gli ingredienti (cioè le tecnologie) adatti allo scopo sono già disponibili, anche senza ricorrere a scenari da fantascienza. Kyoto ha previsto delle soluzioni per ottimizzare gli sforzi “verdi” delle nazioni aderenti, i cosiddetti “meccanismi flessibili”, un’opportunità per le imprese di trasformare lo sviluppo pulito in un business, vendendo crediti di anidride carbonica.
Il rovescio della medaglia è che se un’azienda, ad esempio un produttore d’energia elettrica, non riesce a rispettare il tetto massimo di gas prodotti, deve acquistare i crediti da società più virtuose: questo significa più costi, minore competitività e bollette più elevate. Secondo l’organizzazione italiana Kyoto Club, il nostro paese sta accumulando oltre 5 milioni di euro al giorno di costi per lo sforamento delle quote: siamo a +12% nel livello di emissioni anziché ridurre del 6,5.
Opportunità e investimenti sul mercato dell’anidride carbonica
Uno dei meccanismi flessibili è il Cdm (Clean development mechanism). Un governo, o un’azienda privata, può finanziare un progetto per ridurre le emissioni in un paese in via di sviluppo (dove quel dato progetto è attuabile a minor costo). In questo modo, lo sponsor riceve dei crediti (Cer, Certified emission reduction) che possono contribuire a raggiungere l’obiettivo di riduzione fissato da Kyoto, o essere scambiati sul carbon market. Un’azienda che deve ridurre le sue emissioni nocive, così, può decidere se investire in nuove tecnologie o acquistare crediti per compensare i gas eccedenti.
L’investimento può generare ricavi aggiuntivi grazie alla vendita di crediti. Dunque il Cdm è anche uno strumento per accrescere il vantaggio competitivo su altre imprese, attrarre finanziamenti e operare sul mercato dell’anidride carbonica per ottenere liquidità. Molte società offrono servizi e consulenze per entrare in questo business, come Factor3C (una delle maggiori in Europa) ed Eco-Way a Milano. Il primo passo, ha spiegato Raes, dovrebbe essere il tentativo di rispettare le quote di Kyoto operando in casa propria, ma l’utilizzo dei Cdm in paesi esteri, così come l’acquisto di Cer, è indispensabile a nazioni come l’Italia, che scontano un certo ritardo sulla strada del 2012.