L’interesse verso una fruizione “a servizio” di infrastrutture, piattaforme o applicazioni nasce dalla stringente necessità di avere risorse scalabili e pagare quello che effettivamente si usa.
Già da qualche tempo, il cloud computing ha superato la fase del puro rumore, attenzione sulla
stampa, etc. ed è diventato terreno di interesse e investimenti da parte delle aziende, alle prese con
la necessità di ridurre i costi (Opex, ma soprattutto Capex), migliorando al tempo stesso l’apporto
che l’It può offrire all’efficienza dei processi di business. La crescita è testimoniata dalle cifre: Gartner
stima un mercato da 150 miliardi di dollari nel 2013, mentre Merrill Lynch parla di 160 miliardi già
nel 2011.
Ormai è abbastanza chiaro che il termine “cloud computing” identifica un modello di utilizzo dell’It
tramite servizio, che si estende dall’infrastruttura alle piattaforme, fino alle applicazioni. Il traino
principale, dunque, non è rappresentato dalla tecnologia, bensì dai bisogni sempre più incalzanti di
disporre di risorse a consumo, pagate in misura del loro utilizzo.
Differenze fra pubblico e privato
Se, tuttavia, il concetto è nato e ha trovato prima concretizzazione nell’ambito delle cloud “pubbliche”
(Amazon, Google e simili), la crescita pare oggi legata soprattutto allo sviluppo della declinazione “privata”, dove il servizio fruito viene
erogato dai data center delle aziende stesse.
Questa soluzione elimina i dubbi sulla sicurezza
che da sempre accompagnano lo sviluppo
del modello. In tempi recenti, ha iniziato ad
affermarsi anche una logica “ibrida”, più funzionale
alla criticità delle applicazioni o dei dati
eventualmente da allocare su sistemi esterni
alle aziende. Non tutti i workload, peraltro, si
prestano a una declinazione “cloud”: le aree
del test & sviluppo, della gestione desktop e
delle applicazioni di produttività individuale
sono fra quelle che hanno già trovato concretizzazione
nelle offerte disponibili sul mercato.