Dalle norme comunitarie al recente decreto 135/09: definire senza ambiguità l’origine dei prodotti è un compito delicato per molte aziende
Basta un logo su una maglietta per poter scrivere sull’etichetta “made in Italy”? Quando un prodotto può dirsi al cento per cento italiano e quando, invece, un marchio può ingannare l’acquirente? La disciplina sull’origine delle merci lascia spazio a diverse interpretazioni. È un argomento all’ordine del giorno per molte aziende, in particolare nel settore dell’abbigliamento, calzature e pelletteria. È in gioco la qualità e affidabilità dei nostri marchi sui mercati esteri. Tra norme comunitarie e il decreto legge 135/09 (convertito in legge lo scorso novembre), è facile perdere la bussola nel determinare l’origine di un prodotto. Di questi problemi si è discusso in un recente convegno alla Camera di commercio di Milano.
L’origine delle merci è il cardine di tutte le misure doganali: divieti, contingenti, antidumping, etichettatura. Per questo motivo è così controversa. A parte il caso di un bene interamente ottenuto in un certo paese (per esempio il marmo di una cava in Toscana), per tutte le altre merci occorre valutare se hanno subito una “sostanziale trasformazione”. Per la Corte di Giustizia europea significa che un prodotto acquisisce delle proprietà nuove. Nel campo della moda, un abito deve essere completamente confezionato in Italia per fregiarsi del relativo “made in”, fatta salva l’importazione del tessuto. La trasformazione, quindi, non ha niente a che vedere con valori estetici o di marketing (la commerciabilità di un bene).
Una maglietta confezionata in Cina non si trasforma con un logo italiano stampato sopra. Questa maglietta conserva la sua natura, diversamente da un tessuto che diventa un abito. Oltre ai loghi aziendali, anche i modi di conservare e trasportare le merci, gli imballaggi, la pittura e lucidatura sono tutti elementi che mantengono intatte le caratteristiche dei prodotti. Un frigorifero fabbricato in Cina e lucidato in Italia rimane cinese, così come un piumino, realizzato in India e venduto in una scatola ideata nel nostro Paese, rimane indiano. Il decreto legge 135/09 ha cercato di precisare alcune questioni irrisolte.
Innanzi tutto, introduce una sorta di super made in Italy: i prodotti interamente realizzati nella Penisola (disegno, progettazione, lavorazione e confezione) possono utilizzare etichette come “100% made in Italy”, “tutto italiano” e così via. Ciò serve a tutelare soprattutto gli oggetti artigianali. La semplice etichetta “made in Italy”, invece, è lecita se un certo prodotto rispetta la regola della “sostanziale trasformazione”. L’imprenditore, però, deve anche guardarsi dall’ingannare l’acquirente attraverso una “fallace indicazione”: far credere (erroneamente) che l’origine della merce sia italiana utilizzando segni, figure o il marchio aziendale. Per evitare sanzioni ci sono due scappatoie: indicare chiaramente l’origine estera o impegnarsi a fornire queste informazioni al momento della vendita.