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Un’ipotetica exit strategy dal cloud, le peculiarità del fornitore del servizio e il problema normativo. Ne parliamo con Carla Arend di Idc.
Il modello ibrido pare essere quello vincerà su qualsiasi fronte del cloud, non solo storage. Si tratterà di una oggettiva prevalenza o di un modo compromissorio per garantirsi sempre una exit strategy?
Il modello ibrido è particolarmente rilevante per il cloud storage, dove c’è la necessità di trasmettere grandi quantità di dati su una rete, ad esempio nel caso di un backup iniziale o di un restore, per i quali l’ampiezza di banda è un fattore potenzialmente limitante. Inoltre, in uno scenario di disaster recovery, è necessaria una seconda location per i dati, nel caso in cui la prima sede venisse perduta. In questo caso, è sicuramente importante disporre dei dati sia on-premise che nel cloud. Un terzo fattore sta nel fatto che i livelli di sicurezza offerti dai cloud provider sono tipicamente molto più elevati di quelli che un’azienda media è in grado di ottenere. Questo aggiunge un ulteriore livello di protezione.
In ambito applicativo, al contrario, solitamente vediamo un approccio contrapposto al cloud, in cui le applicazioni vengono trasferite completamente su cloud o rimangono interamente on-premise.
Cosa deve esserci scritto nella carta di identità di un fornitore di servizi cloud storage?
Una soluzione basata su cloud deve poter fornire, come minimo, le stesse caratteristiche e funzionalità di una corrispondente soluzione on-premise, più un modello di pricing più flessibile (pay-per-use), più standard di sicurezza molto elevati. Chi sarà in grado di offrire servizi localizzati (in termini di lingua, di valuta, di conformità normativa), oppure livelli di servizi legati a specifici mercati verticali, avrà buone possibilità di competere.
Molte organizzazioni preferiscono acquistare servizi cloud storage da grandi e rinomati fornitori internazionali, oppure da fornitori locali. Dipende dal grado di fiducia dell’azienda e da quanto è maturo il servizio. Alcuni servizi di cloud storage stanno emergendo solo ora, e per questo motivo non sono ancora in grado di sostenere il confronto con una soluzione on-premise.
Esistono o esisteranno problematiche relative alle normative sulla residenza fisica dei dati?
L’Unione europea ha diramato una direttiva sulla privacy, che è stata adottata dagli stati membri, e che permette il libero trasferimento dei dati all’interno dell’Unione.
La Svizzera è naturalmente un’eccezione, dove i dati devono essere mantenuti nel paese.
L’Unione Europea ha anche siglato un accordo di “Safe Harbour” con gli Stati Uniti, che conferma come i dati europei siano almeno altrettanto sicuri dei dati che si trovano negli Stati Uniti. Questo però viene parzialmente contraddetto dal “Patriot Act”, che permette al Governo degli Stati Uniti di avere accesso a tutti i dati che si trovano fisicamente nel paese.
Sembra che gli utenti finali siano confusi su come rispettare le norme in uno scenario cloud, e generalmente non sembrano preoccuparsi troppo di queste problematiche.
L’approccio generale pare essere di fiducia verso il provider, senza entrare nei dettagli di dove i dati sono collocati fisicamente. Detto questo, sono molte le organizzazioni che preferiscono rivolgersi a fornitori locali, che possono garantire un mantenimento dei dati nella stessa nazione.
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