Un libro di due autori italiani analizza lo stile del presidente americano: una lezione anche per le aziende in tempi di crisi
Gli Stati Uniti vogliono mettersi a dieta, ma non stiamo parlando della moda “organic” (il cibo biologico) opposta al culto del fast food. È una dieta economica post consumismo sfrenato, imposta dalla crisi: l’era del “big is beautiful” deve ridurre il suo giro vita finanziario. Basta gigantismo, come quello evocato dall’enorme hamburger che schiaccia una modella nella foto di David LaChapelle (Death by hamburger, appunto). Fossero solo i panini. Ci sono, invece, appartamenti da 200 metri quadrati, suv con cilindrate che potrebbero sparare un razzo sulla luna, frappuccini e galloni di benzina e coca cola, carrelli della spesa carichi di confezioni extra, e l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Pare una critica al consumismo, invece si tratta della caduta di un modello economico. Anche Barack Obama se n’è accorto. Ecco la citazione di un suo recente discorso, ricordata durante la presentazione a Milano del libro “Obama leadership”: «Non possiamo tornare all’era di quando la Cina, la Germania e altri ci vendevano ogni prodotto e noi consumavamo tutto a credito ed esportavamo poco o quasi niente». Qui sta il problema: l’America è cresciuta negli ultimi anni indebitandosi enormemente, in ciò spalleggiata da un sistema bancario che poi ha mostrato tutte le sue falle. Il Pil cresceva, ma c’era il rovescio della medaglia: risparmio zero e consumi a picco quando la bolla è scoppiata.
Anche i dirigenti americani stanno iniziando a pensare che forse è ora di girare la barra del timone. Si sta profilando un nuovo paradigma di sostenibilità economica, che non significa solo ridurre gli sprechi, come l’aria condizionata polare che farebbe stare a loro agio i pinguini. Dovrà cambiare il modo di guidare un’azienda, partendo dall’idea che la sovrapproduzione non giova più a nessuno. Ciò si riflette in un mutamento di stile imprenditoriale, che Obama sta mostrando impeccabilmente a livello politico. Che cosa può insegnare ai manager il presidente degli Stati Uniti? Innanzi tutto, stando all’analisi degli autori del libro (Federico Mioni e Marco Rotondi), bisogna rassicurare e convincere piuttosto che aggredire.
Con il “big is beautiful” tramonta anche l’epica del dirigente/politico/leader “top gun”, ben riassunto dal motto «quando i tempi sono duri, i duri iniziano a giocare» o ancora (vedi Bush) «chi non è con noi, è contro di noi». Il marketing segue la stessa strada e passa da competitivo a cooperativo. Non che, improvvisamente, diventiamo tutti più buoni e cose simili; però l’arroganza cede il passo all’umiltà, il sospetto alla fiducia e il cinismo alla speranza. C’è maggior pragmatismo, responsabilità e attenzione all’interesse comune. Proprio come sta dimostrando Obama nel voler riformare la sanità americana e nei suoi proclami per un’economia più verde: meno inquinamento e più fonti rinnovabili tanto per richiamare il concetto della sostenibilità.
Ogni azienda dovrebbe così concentrarsi sulla creazione del valore piuttosto che sull’ansia del profitto; sull’ottenere risultati rapidi e concreti senza perdere di vista la sua affidabilità e coerenza rispetto ai valori che pubblicizza. Dalla quantità alla qualità. Certo il cammino è lungo anche per un mastino come Obama, fresco di Nobel per la pace: il suo stile sarà infine vincente? Per vedere i risultati c’è ancora tempo. Cambiare la mentalità di una nazione very big come gli Stati Uniti richiede uno sforzo prolungato. Intanto, una cosa è certa: per non morire schiacciati da un hamburger, anche piccolo è bello.