Occhi puntati sulla vera impresa forte italiana

Che guarda caso è la Pmi. Paolo Preti, docente della Bocconi, spiega perché queste realtà sono l’asse portante della nostra economia

Dicembre 2007

Dov’è finito il dibattito sul declino? Dove sono finite le dotte discussioni sulla struttura industriale italiana? Il cambio di governo e l’accelerata dell’economia (complice anche la ripresa della Germania) hanno azzerato una discussione che è diventata presto parte della polemica politica perdendo quindi il suo iniziale carattere accademico. Non che questo gli garantisse una particolare oggettività. Almeno di ciò è convinto Paolo Preti, docente della Scuola di direzione aziendale della Bocconi (e direttore del master per le piccole imprese) che, insieme alla collega Marina Puricelli, al tema del declino ha dedicato parte del suo libro “L’impresa forte” (Egea, 15 euro, 140 pagg.), un manifesto per le piccole imprese che, secondo gli autori, devono rimanere l’asse portante del sistema industriale italiano. Perché il problema dell’Italia, come spiega in questa intervista Preti, non sta certo nelle dimensioni delle aziende.

Il dibattito sul declino era solo fuffa politico-ideologica o c’era anche della sostanza?
«Chesterton (scrittore e giornalista inglese dei primi del Novecento – ndr) dice che la più grande verità meno qualcosa corrisponde alla più grande menzogna. Diciamo che esiste un modo per fare ideologia smaccato, più facile da scoprire, e c’è un modo più furbo. I declinisti, che sono persone intelligenti e quasi tutti economisti politici non aziendali, citano dati veri, ma parziali. Uno dei dati che solo un anno e mezzo fa, sotto elezioni e in piena bagarre declinista, ricorreva era quello relativo al contributo italiano all’export internazionale da tutti indicato in continua diminuzione. Solo che lo era dal ’93 ed era misurato in quantità, non in valore. In pezzi esportati è vero che è minore rispetto a prima, ma l’altro dato avrebbe detto che l’importo in valore aumentava, sia pure di poco. Questo non significa che bisogna stare tranquilli ma, per fare un esempio, che esportavamo meno Fiat e più Ferrari. Dietro c’era il fatto che l’Italia non stava perdendo il treno, ma cambiando l’offerta produttiva. Meno automobili per un mercato medio-basso, ma più prodotti di livello».

Il dato doveva essere utilizzato in positivo.
«Sia pure in modo moderato aveva un risvolto positivo. Gli altri esempi riguardavano il tessile-abbigliamento in gravissima crisi dopo la caduta delle barriere doganali con la Cina. Verissimo. Solo che ci si dimenticava di aggiungere che il 12,5% delle importazioni cinesi di calzature sono Made in Italy e il 10% dell’import cinese del tessile-abbigliamento è italiano.
Mentre qui discutevamo sul fatto che molte Pmi del tessile-abbigliamento e del calzaturiero erano in crisi per la concorrenza cinese, altre aziende, sempre italiane e sempre di piccole dimensioni, stavano completando la loro operazione di cambiamento. Che aziende erano? Erano aziende che facevano qualità, innovazione e davano servizio. I numeri o si dicono tutti, si fanno indagini approfondite o, se ci si ferma al primo dato che conferma le proprie idee, ecco che spunta l’ideologia raffinata, ma sempre ideologia, parzialità e non realtà
».

Rimane il fatto che, visto come è cambiato il mondo negli ultimi anni, in molti continuano a pensare che la struttura italiana non sia cambiata per nulla.
«È vero, la struttura industriale italiana non è cambiata. E se è cambiata ha visto diminuire le grandi imprese e aumentare di poco le medie. Il corpo è rimasto formato dalle piccole aziende. Ma questo non è negativo perché noi non dobbiamo inseguire un modello di sviluppo economico che arriva dall’estero e in particolare dagli Stati Uniti. Io credo che gli Usa abbiano molto da insegnare all’Europa e all’Italia, ma questo non vuol dire che dobbiamo imitarli in tutto.
Lo sviluppo industriale statunitense è soprattutto manageriale. Piccolo dato a sostegno: Harvard nasce cento anni fa, la Sda (la Scuola di direzione aziendale della Bocconi), che in Italia rappresenta l’eccellenza, ha 32-33 anni. Noi siamo carenti da un punto di vista manageriale e forti da quello imprenditoriale. Il manager è un professionista della direzione d’azienda e questo si impara in università, l’imprenditore, invece, è colui che ha un’idea. Il manager realizza le idee di altri con capacità che spesso chi ha le idee non ha. L’imprenditore è un artista, è uno che ha un’idea e la trova dove gli altri non la vedono. È vero che la struttura non è cambiata perché non può cambiare e perché è la nostra peculiarità
».

Però spesso si dice anche che il governo dovrebbe favorire l’unione tra aziende.
«Il problema non è la struttura o le dimensioni delle aziende. Il problema è valorizzare le Pmi che operano in un Paese che non le difende. E quindi detassare la successione, defiscalizzare gli straordinari, attuare la semplificazione proposta da Capezzone (una giornata per aprire una azienda), aiutare le piccole imprese ad andare all’estero. Molte cose si dovrebbero fare, ma non nella direzione di aumentare le dimensioni. Che poi se qualche azienda cresce non è male. Ma non è quello il punto. Chi governa il nostro Paese dovrebbe riconoscere che la piccola e media impresa è un bene comune che va difeso e tutelato. Mentre al momento mi sembra che le Pmi sono come Houdini incatenato in fondo al mare, capace comunque lo stesso di emergere».

In certi settori, però, la grande impresa è necessaria.
«Sicuramente. Però la dimensione non è un bene assoluto. Né piccolo è bello, né grande è necessario. Ognuno deve trovare la sua dimensione di riferimento. Ferrari e Fiat fanno auto, solo che la prima deve restare piccola e l’altra grande. La dimensione è una variabile gestionale attraverso la quale l’imprenditore deve regolamentare il proprio business. In alcuni casi deve crescere rapidamente perché ci sono concorrenti che la mandano fuori mercato, in altri deve restare piccola perché diventare grande vorrebbe dire perdere vantaggi competitivi. Non c’è un must. Ognuno deve capire qual è la dimensione di successo nel proprio business. La diversità nei settori e fra Paesi, purché argomentata, è un bene».

Internet e la rivoluzione informatica aumentano, però, i problemi delle piccole imprese che non hanno al loro interno le competenze adatte.
«Dal punto di vista della novità tecnologica e della sua implementazione, la piccola impresa è indietro. Ma faccio un esempio: sei mesi fa mi chiedevano quanto l’imprenditore italiano parlasse inglese. Non lo parla, è vero, ma in tutto il mondo è così e non bisogna equivocare. Il linguaggio, e soprattutto in questo caso la tecnologia, quasi mai nell’impresa italiana prende il sopravvento sul contenuto. È chiaro che un ottimo contenuto e un buon linguaggio portano l’azienda più lontano. Ma sono convinto che tra un buon linguaggio e un medio-pessimo contenuto e viceversa la seconda realtà vince sulla prima».

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