Non è sufficiente rinunciare alla propria televisione per essere legittimati a non pagare l’abbonamento
Anche chi non ha un televisore ma solo un computer con una scheda, interna
o esterna, per la ricezione TV deve pagare il canone? La risposta è,
allo stato attuale, affermativa. Non è sufficiente rinunciare alla propria
televisione per potersi sentire legittimati a non pagare il cosiddetto “canone
di abbonamento”. L’antico regio decreto n. 246 del 21 febbraio 1938
(e successive integrazioni e modifiche) precisa infatti che: “Il canone
di abbonamento è un tributo dovuto per la semplice detenzione di un apparecchio
atto od adattabile alla ricezione delle trasmissioni radiotelevisive.”
(principio riconfermato recentemente dalla Corte di Cassazione con la sentenza
n. 284 del 2002).
Un qualunque apparecchio potenzialmente in grado di ricevere un segnale televisivo
(tale può essere una scheda video “all-in-one”, ma anche
un semplice videoregistratore o un monitor per PC inizialmente privo di sintonizzatore)
ricade nell’obbligo di corrispondere la quota annuale al Servizio Radiotelevisivo
Pubblico.
La materia, con tutti i legittimi dubbi che l’utente si porta dietro,
è certamente complessa e soggetta a continue e rapide evoluzioni, essendo
stata regolata nel tempo da diverse disposizioni non sempre coerenti tra loro,
che hanno poi dovuto fare i conti con l’adeguamento alle normative comunitarie
e l’evoluzione (sia tecnologica che sociale) dei mezzi di comunicazione.
Ha sicuramente contribuito a generare maggiore confusione la definizione di
questo tributo quale “canone di abbonamento”. Questo termine può
indurre a pensare, erroneamente, ad un servizio che può essere disdetto
nel momento in cui l’utente decida di non volerne più usufruire.
Le stesse campagne promozionali Rai fanno spesso riferimento ai vantaggi o
ai premi di cui possono usufruire gli “abbonati” (come se sottoscrivere
l’abbonamento fosse una scelta vantaggiosa e non un obbligo).
In realtà, il termine “canone d’abbonamento” è
usato impropriamente per definire ciò che originariamente era una vera
e propria tassa, cioè un tributo legato ad una determinata prestazione
di un servizio erogato da un ente pubblico e che, in seguito, con la crescita
esponenziale delle TV private e la progressiva riduzione della natura pubblica
della Rai, ha assunto la forma di imposta, cioè di tributo slegato ad
un’effettiva fruizione dei programmi “pubblici”.
In un’interessante sentenza del Tribunale di Milano si legge che, in
passato, il pagamento del canone di abbonamento radiotelevisivo poteva apparire
giustificabile quando la Rai era l’unica emittente autorizzata a diffondere
via etere i programmi radio-TV. Il panorama radiotelevisivo più recente
risulta invece caratterizzato da una pluralità di emittenti nazionali
e locali in cui una situazione di esclusiva creerebbe “una disparità
evidentissima di trattamento tra chi riceve le trasmissioni televisive attraverso
la normale televisione e chi le ricevesse, invece, (addirittura migliori) attraverso
la scheda adattata al computer, ovvero chi non le ricevesse affatto”.
Senza dimenticare – precisa ancora il giudice – “l’uso gratuito
dell’etere che avviene con le trasmissioni via Internet”, nonché
il fatto che ormai “i programmi mandati in onda dalla Rai non differiscono
dai programmi mandati in onda da altre reti private a diffusione nazionale”.
Posizione sicuramente condivisibile visto l’aumento continuo della percentuale
di spot contenuti nei programmi Rai, che ha reso più difficile una distinzione
tra quello che dovrebbe essere un servizio di natura esclusivamente pubblica
(sul modello dell’inglese BBC) e un network commerciale privato.
È curioso notare come il giudice rilevi la principale differenza tra
TV pubbliche e private “solo per il “logo” che compare a un
angolo del teleschermo”. Di conseguenza, riesce difficile trovare una
giustificazione razionale all’esistenza di una tassa che l’utente
deve corrispondere alla sola “emittente pubblica” sul solo presupposto
della detenzione di un apparecchio potenzialmente atto a ricevere un servizio
“pubblico” dal contenuto uguale a quello offerto dal “servizio
privato” e indipendentemente dal fatto che usufruisca sia dell’uno
che dell’altro.
Il recente codice delle comunicazioni radiotelevisive ha cercato di ribadire
la natura “pubblica” della Rai stabilendo che “Il contributo
pubblico percepito dalla società concessionaria del servizio pubblico
generale radiotelevisivo, risultante dal canone di abbonamento alla radiotelevisione,
è utilizzabile esclusivamente ai fini dell’adempimento dei compiti
di servizio pubblico generale affidati alla stessa”, ribadendo che un
numero adeguato di ore di trasmissioni televisive e radiofoniche dovrebbe essere
dedicato “all’educazione, all’informazione, alla formazione,
alla promozione culturale, con particolare riguardo alla valorizzazione delle
opere teatrali, cinematografiche, televisive, anche in lingua originale, e musicali
riconosciute di alto livello artistico o maggiormente innovative” e che
tale programmazione dovrebbe essere presentata anche nelle fasce di maggiore
ascolto.
Norme che difficilmente potranno trovare applicazione fino a quando una “missione”
di servizio pubblico così ben delineata si scontrerà con logiche
puramente commerciali basate sulla schiavitù dei dati d’ascolto.
*Avvocato in Modena