La spesa Ict di avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro e studi multidisciplinari raggiunge nel 2018 il valore di 1.265 milioni di euro, con una crescita del 7,9% rispetto all’anno precedente.
Una crescita molto superiore all’aumento registrato dalle imprese nello stesso periodo (+0,7%). E trainata dall’adempimento a obblighi normativi e da una crescente consapevolezza dell’utilità degli strumenti digitali per le attività delle professioni economico-giuridiche.
Sono alcuni dei risultati della ricerca dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale della School of Management del Politecnico di Milano. Ricerca commentata da Claudio Rorato, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale.
“Le professioni economico-giuridiche mostrano una crescente consapevolezza sulle tematiche digitali, sulle nuove dinamiche di mercato e sull’impiego delle soluzioni informatiche in grado di migliorare con una certa ambizione i modelli organizzativi e di business. E l’impatto delle nuove tecnologie sulla redditività degli studi gli dà ragione: oltre la metà degli studi in cui sono più presenti strumenti digitali ad alto tasso di innovatività ha registrato un aumento superiore al 10%. Le sfida per il futuro sarà aumentare la diffusione di cultura innovativa e approccio collaborativo, che adesso, pur in crescita, interessa circa un terzo degli studi professionali”.
Profilo della spesa Ict degli studi professionali
Secondo la ricerca, le tecnologie più utilizzate sono la firma elettronica (già adottata dal 97% degli studi) e la fatturazione elettronica (lo strumento che cresce maggiormente, dal 42% all’82%, spinto dall’obbligo normativo). Sono seguite a distanza da archivio digitale dei documenti (47%), conservazione digitale (45%), VPN (reti virtuali private, 44%) e videochiamate (42%). Meno di quattro professionisti su dieci (38%) hanno un sito Internet. Solo il 29% è presente sui social media e appena il 23% utilizza strumenti di e-learning. Ancora marginale l’adozione di tecnologie di frontiera, come la Business Intelligence (3%), la Blockchain (2%) e l’intelligenza artificiale (1%).
Aumentano gli studi professionali che si sentono tecnologicamente pronti per il futuro (42%, contro il 38% del 2017), ma ancora oltre la metà ritiene la propria dotazione inadeguata a coprire le esigenze future (54%). In risposta a questa incertezza, nel 2018 soltanto l’1% degli studi non ha investito in Ict (dal 2% all’1%), crolla la percentuale di professionisti che spendono meno di mille euro (dal 22% all’8%) e di quelli che stanziano fra i mille e i 3mila euro (dal 30% all’11%), mentre raddoppiano gli studi che spendono fra i 3mila e i 10mila euro (dal 36% al 75%).
Gli studi multidisciplinari si confermano la categoria professionale che investe maggiormente in strumenti digitali, con una spesa media di 15.500 euro (+9,9%), seguiti dai commercialisti con 9.400 euro (+6,8%), dai consulenti del lavoro con 8.900 euro (+2,3%%) e dagli avvocati, che con 6.000 euro di investimenti sono i professionisti col budget più limitato ma con la crescita di spesa più significativa (+13,2%).
Sette Pmi su dieci sono soddisfatte dei servizi tradizionali offerti dagli studi, ma se si considerano i servizi innovativi abilitati dalla capacità di raccogliere e sfruttare i dati la situazione cambia. Solo il 29% delle aziende condividerebbe altri dati con gli studi professionali, che in generale appaiono impreparati su questo fronte: appena un quarto fornisce servizi di controllo di gestione e circa il 3% utilizza i software di business intelligence per organizzare servizi basati sui dati.
“Le tecnologie più diffuse sono ancora quelle imposte dagli obblighi normativi, come la fatturazione elettronica e la conservazione digitale a norma, ma dalla ricerca emerge anche un crescente interesse per altre tecnologie, come i portali per la condivisione di documenti con la clientela (+10%), i software per il controllo di gestione (+9%), per le videochiamate (+8%) e per la gestione documentale (+7%). Stenta ancora a decollare il sito internet, stabile sia nell’utilizzo (38%) sia nell’interesse (27%). È il sintomo di una cultura ancora in formazione per quanto riguarda l’orientamento al mercato, soprattutto quello potenziale, ancora difficile da percepire nelle categorie professionali, soprattutto in termini di nuove azioni da attivare.” Ha affermato Elisa Santorsola, Direttore dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale.
La digitalizzazione spinge la redditività
Più gli strumenti digitali a disposizione dello studio sono innovativi più cresce la sua redditività. Secondo la ricerca, infatti, la presenza di tecnologie a basso livello di innovazione fa crescere lo studio nel 57% del campione intervistato (fino al 10% nel 43% dei casi e oltre il 10% per il 14% dei professionisti). Percentuale che sale al 60% se sono presenti strumenti a media innovatività (di cui il 21% cresce di oltre il 10%) e al 69% se lo studio usa tecnologie ad alto tasso di innovazione (fra cui ben il 53% cresce più del 10%).
L’Osservatorio ha analizzato anche il livello di digitalizzazione, collaborazione e cultura innovativa delle professioni economico-giuridiche. Il percorso per la digitalizzazione degli studi professionali è ancora lungo, con il 61% che rivela un livello scarso o appena sufficiente. Gli obblighi normativi spingeranno i professionisti a digitalizzare maggiormente i propri processi, ma già adesso una minoranza sta acquisendo conoscenze in grado di andare oltre l’adempimento normativo e offrire nuovi servizi alla clientela. Appena il 37% degli studi adotta un approccio collaborativo positivo sia nelle relazioni interne sia in quelle esterne allo studio, con alcune differenze fra le diverse categorie professionali. I più collaborativi sono gli studi multidisciplinari, che usano i portali per la condivisione documentale nel 46% dei casi, seguiti dai commercialisti (37%), dai consulenti per il lavoro (32%) e dagli avvocati (18%).
Quasi due terzi dei professionisti sono ancora dotati di scarsa o sufficiente cultura innovativa, segno che mancano ancora quei comportamenti in grado di orientare le azioni di carattere innovativo. Lacune correlate anche a una formazione ancora indirizzata prevalentemente alle tematiche giuridico-economiche, con solo il 20-30% circa dei professionisti che ha partecipato a corsi di formazione incentrati su altre competenze e percentuali decisamente inferiori per i dipendenti (max 8%). Per questi ultimi la formazione prevalente è ancora quella dedicata all’uso delle tecnologie di studio (12%).
“Soltanto una percentuale compresa fra il 36% e il 39% circa degli studi professionali si colloca a un livello elevato nelle tre componenti tipiche dell’economia digitale: collaborazione, digitalizzazione e cultura dell’innovazione. Tuttavia, la fascia di professionisti con un punteggio sufficiente in queste dimensioni tende ad allargarsi rispetto agli anni precedenti. È il segnale della crescita dell’alfabetizzazione digitale tra i professionisti, anche se a un livello ancora poco evoluto.” Ha commentato Claudio Rorato.
Spesa Ict e timori dei professionisti
L’attenzione e la propensione all’investimento in Ict cambiano a seconda della categoria professionale. Nella professione legale, dove si concentrano gli studi di maggior dimensione, è presente la più alta percentuale di studi che non hanno dedicato risorse alle tecnologie digitali (5%) e il maggior numero di micro investitori (sotto i 3mila euro, 59%), ma anche la quota più elevata di studi in grado di investire tra i 100mila e i 250mila euro (2%).
I commercialisti sono il gruppo con il maggior numero di medi investitori (con spesa fra 3mila e 10mila euro), mentre i consulenti del lavoro si dividono omogeneamente fra le diverse classi di spesa. Gli studi multidisciplinari risultano, infine, l’unica categoria presente in tutte le fasce di investimento, segno di una maturità diffusa in tutte le dimensioni di studio, e registrano il minor numero di micro investitori (20,5%) e la percentuale più elevata di professionisti che hanno investito fra i 10mila e i 50mila euro (29,8%).
L’inadeguatezza delle competenze e degli strumenti informatici a disposizione e le difficoltà a procurarsi lavoro sufficiente per mantenere o ingrandire lo studio sono le principali preoccupazioni espresse dai professionisti. Aggiornare le proprie competenze per rispondere ai cambiamenti portati dal digitale è una preoccupazione per sei studi su dieci, che nel 47% dei casi esprimono incertezze sulle proprie competenze in ottica futura e soltanto nel 38% si ritengono già pronti.
Gli avvocati sono la categoria più preoccupata per l’inadeguatezza attuale e futura delle proprie competenze (17%), ma sono anche i professionisti, insieme agli studi multidisciplinari, che più si considerano superiori alla media e con abilità adeguate anche per il futuro (rispettivamente 11% e 12%).
Se si guarda agli strumenti informatici a disposizione, ben oltre un terzo degli studi si ritiene ben attrezzato anche per il futuro, il 47% le considera adeguate oggi ma è incerto in previsione futura e solo uno su dieci li ritiene inadatte anche attualmente. Anche in questo caso sono gli avvocati i più negativi sulla propria dotazione Ict, con il 13% che la giudica inadeguata, mentre gli studi multidisciplinari sono i più ottimisti, con il 14% di professionisti che si considera sopra la media come strumenti Ict a disposizione.
Fra le altre preoccupazioni degli studi emergono dalla ricerca dell’Osservatorio in particolare il timore di non avere lavoro sufficiente per mantenere lo studio (indicato dal 29% del campione) e la difficoltà ad aumentare le dimensioni dello studio (27%). Seguono la paura di non riuscire a gestire il cambiamento (10%), di non essere in grado di offrire i nuovi servizi richiesti dai clienti (9%) e di non essere all’altezza della concorrenza (5%).
Le piccole e medie imprese
La maggior parte delle piccole e medie imprese servite dagli studi è soddisfatta dell’operato del professionista (70%), che però molto spesso è ancorato ai servizi tradizionalmente offerti e non è disponibile e pronto alle nuove esigenze delle aziende (25%) oppure attende lo stimolo esplicito del cliente per attrezzarsi e iniziare a proporre i nuovi servizi richiesti (29%).
È la fotografia che emerge da un sondaggio condotto dall’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale insieme a Doxa su 300 Pmi italiane.
Il commercialista è la categoria a cui le Pmi si rivolgono abitualmente (il 94%), seguita dal consulente del lavoro (53%) e dall’avvocato (44%). Soltanto l’11% ricorre a uno studio multidisciplinare, in primo luogo perché ha bisogno di un interlocutore unico (34%), poi perché ritiene che abbia capacità consulenziali superiori (30%), per contenere i costi legati ai professionisti (11%) o perché usa strumenti tecnologici più evoluti (5%).
Il 24% delle imprese che non richiedono i servizi di uno studio multidisciplinare preferisce rivolgersi a studi separati, il 15% pensa di avere bisogno di una sola professione e solo il 7% ne sta cercando uno. I servizi professionali più utilizzati dalle aziende sono la gestione fiscale (81%), la fatturazione elettronica (77%), i servizi di conservazione digitale (54%) e il controllo di gestione (51%), mentre quelli che sono più interessate a ricevere sono il coaching (20%), il supporto alla redazione del business plan (19%), la gestione e il recupero del credito (18%) e la formazione anche in e-learning per i dipendenti aziendali (17%).
La maggior parte delle aziende sceglie il professionista a cui rivolgersi attraverso la propria rete di conoscenze (54%), il suggerimento di altri professionisti con cui ha collaborato in passato (27%) e i propri clienti o fornitori (9%). I canali digitali hanno un ruolo marginale nella scelta dello studio: solo il 3% lo trova con una ricerca su Internet, il 2% usa piattaforme online o marketplace per professionisti e un altro 2% lo cerca sui social media.
E proprio sui servizi digitali sia le Pmi sia gli studi appaiono ancora impreparati, evidenzia ancora l’Osservatorio. Meno di un terzo delle imprese, ad esempio, condividerebbe ulteriori dati oltre a quelli già in possesso degli studi per elaborare nuovi servizi (29%), un quinto non sa rispondere (22%) e ben il 49% ritiene che gli studi abbiano già dati a sufficienza. Anche gli studi dimostrano una limitata cultura del dato: solo un terzo fornisce servizi di controllo di gestione e circa il 3% utilizza i software di business intelligence per organizzare servizi basati sui dati.
Il download dellaricerca completa è disponibile a questo link.