Chi gestisce l’It non si fa impressionare dagli slogan, ma fa.
A scendere in istrada e parlare di cloud con chi amministra l’It nelle aziende italiane c’è da guadagnarci. In primo luogo si capisce che tutto lo scrivere che se ne fa in una qualche misura giunge a destinazione e viene letto, ma non per il gusto di farlo: per capirci davvero qualcosa, ossia che fare.
In secondo luogo si comprende che le categorie, le classificazioni, le sigle, quando atterrano sul tavolo di chi deve decidere, lasciano volentieri spazio agli aspetti pratici.
Avendo avuto modo di confrontarsi con una buona rappresentanza di It manager del nord Est, pronubo il Club Bit, ne abbiamo tratto alcune considerazioni che proponiamo in serie.
Si usa il cloud sostanzialmente per ridurre i costi, non foss’altro per evitarsi i periodici giri di patch che vanno fatti con le applicazioni residenti tradizionali.
Si usa il cloud per trovare nuove vie alla collaborazione, ossia spostando carichi come il data entry sui soggetti che in primis sono interessati a che quel dato esiste.
Si usa il cloud perché le risorse interne sono scarse e allora si condividono in rete.
Si usa il cloud perché è anche una buona forma di delocalizzazione del datacenter.
Ma, anche, non lo si usa.
Non si usa il cloud per tutti i dati: si vuole sapere nome e cognome di chi ci mette le mani. E non è una questione di latitudini: che stia a Rozzano o a Bangalore, favorisca l’identità.
Non si usa il cloud perché la banda larga in Italia non è una realtà comune e l’attuale tasso di disponibilità delle connessioni non offre le sufficienti garanzie.
Non si usa il cloud perché al momento non serve.
Insomma, il cloud potrebbe essere per tutti, se non oggi, domani.
Ma non per tutto. Importante è che in azienda ci sia sempre qualcuno che sappia intercettare i messaggi che il mondo tecnologico lancia e li sappia interpretare.
E in Italia, noi lo testimoniamo, c’è ancora chi sa fare questo lavoro.