Non basta fare il copia-incolla di Facebook per portare il social in azienda, ma è fondamentale “la cultura dell’ascolto”. I cinque punti da focalizzare.
Gli It manager l’anno scorso hanno investito il 24% in più negli strumenti di social network e community, a fronte di un -5% del budget totale Ict (campione di 107 Cio di grandi gruppi italiani contattati dalla School of Management del Politecnico di Milano).
Gli strumenti social sono quindi un fenomeno emergente all’interno delle grandi imprese italiane.
Ma quanto sono diffusi? Questi strumenti che cambiano il modo di vivere fra i consumatori, cambiano anche il modo di lavorare in azienda? “Sembra proprio di sì – commenta Stefano Mainetti, professore di Tecnologie dei Sistemi Informativi presso il Politecnico di Milano, nel corso di un intervento a Lotusphere Comes To You 2011 –. La diffusione è vicina al 90%“.
Ma attenzione, se si guarda oltre alla pura diffusione in azienda e si valuta “come” e “quanto” vengono usati gli strumenti social in azienda, lo scenario cambia. “Gli strumenti si usano, è vero, ma in modo sperimentale e confinato ad alcune aree – continua Mainetti -, un po’ a macchia di leopardo“.
In alcuni casi si assiste al fenomeno del “devo esserci”, perché tutti stanno andando verso il social . “Prendo Facebook o Twitter, faccio copia-incolla e lo metto in azienda – dice Mainetti -. Ovviamente non funziona così, non è che l’avere a disposizione lo strumento permette di guidare una trasformazione così profonda. Bisogna capire l’azienda, i bisogni degli individui e da lì progettare la trasformazione“.
Quando si parla di social business, non si possono seguire gli slogan. Si tratta di veri e propri progetti concreti che “le aziende devono vivere giorno per giorno“.
E la cosa non è affatto semplice. La trasformazione è così profonda che va progettato uno spazio di relazioni nuovo: i clienti diventano comunità che interagiscono fra di loro, che vogliono dialogare con l’azienda.
E all’interno della stessa azienda assistiamo a persone che condividono e co-creano i contenuti e le informazioni. “E’ una trasformazione epocale – commenta Mainetti – soprattutto in quelle aziende fortemente gerarchiche, burocratiche, dove il “sapere è potere. Una trasformazione che tocca lo stesso modello di business dell’impresa“. Difficile pensare che questa trasformazione passi per un copia-incolla di Facebook, in effetti.
I tre elementi: strumenti, cultura e processi
Per approcciare questa trasformazione i tre elementi cardine da considerare sono gli strumenti, la cultura e i processi. Elementi, che devono essere in equilibrio fra loro.
Gli strumenti. Il CIO con gli strumenti si trova a proprio agio perché sono l’essenza dei sistemi informativi. E gli strumenti devono far parte della trasformazione. “La parte legacy andrà sempre più sullo sfondo – spiega Mainetti – mentre al centro si dovrà creare uno spazio di lavoro virtuale multicanale” (ovvero accessibili da più dispositivi) che si interfaccia con un backend flessibile in grado di orchestrare luoghi e processi“.
Già, i processi. In azienda siamo abituati a processi strutturati, regolati con workflow precisi che i sistemi informativi gestionali tengono sotto controllo. Ma ci sono altri processi in azienda, destrutturati, di collaborazione, senza un workflow pre-definito (ovvero, il workflow c’è, ma non è definito a priori e come tale non è regolato).
Infine la cultura. Che non si può imporre dall’alto. “Da una struttura organizzativa gerarchica, piramidale, ben controllata si passa a una struttura più “anarchica” che si muove in una direzione precisa seguendo regole condivise, non imposte dall’alto“. Dove la leadership è diffusa (“chi è più vicino al problema può prendere le decisioni più opportune“), si assiste a delega e responsabilizzazione delle persone.
Tutto questo funziona se “l’organizzazione mette in atto meccanismi di controllo sociale“, sulla falsa riga di quanto avviene nei blog dove la comunità non tollera post fuori luogo e i partecipanti si “automoderano”: le persone sono allineate in una condivisione di valori e bisogni che l’azienda trasmette. L’individuo insomma sta al centro, è il perno.
Il ruolo del CIO
E qual è il ruolo del CIO in questa trasformazione di social business? Il rischio paventato da Mainetti è che non venga coinvolto. “In diversi casi, abbiamo visto che l’It rimane fuori dalla porta. Sul tavolo dove si prendono le decisioni, c’è il Ceo, il marketing manager, il direttore finanziario. Sono a loro a stabilire come fare il social business in azienda; l’It verrà coinvolto dopo, per le attività più operative“.
“E nel contempo – continua Mainetti – i sistemi legacy, le componenti di infrastruttura tendono a essere via via esternalizzate in un ottica di outsourcing e cloud“. In altre parole, essere fuori dalla porta vuol dire non vivere questa profonda trasformazione, vuol dire perdere quella parte più strategica della gestione dei sistemi informativi. “E ancorarsi su quella che sta diventando una commodity“.
Secondo Mainetti, quindi, la direzione Ict deve muoversi subito, prima che le attività social si giochino su altri tavoli. Come?
Cinque regole da tenere a mente
Mainetti pone alcuni consigli, piccoli passi, regole che consentono di focalizzare i punti più importanti:
- Partire dalle problematiche di business (va bene il social, ma il termine importane è il business)
- Ascoltare e comprendere i bisogni degli individui che – ricordiamo – devono essere al centro. La cultura dell’ascolto non è facile, soprattutto in organizzazioni piramidali dove solo i vertici prendono le decisioni. Cionondimeno la cultura dell’ascolto è la leva che permette un percorso virtuoso di trasformazione della cultura aziendale
- Analizzare le motivazioni intrinseche delle persone e le dinamiche dei gruppi (non ha senso dare responsabilità a chi non vuole prendersele)
- Progettare gli strumenti in base all’esperienza utente e da lì passare alle funzionalità
- Reiterare l’intero processo