Con il rilascio di OpenShift e CloudForms, la società rilancia con forza il concetto di “as a service”. A livello di piattaforma e di infrastruttura.
Boston. Certamente il cloud computing è stato il filo conduttore del Red Hat Summit. E non poteva essere diversamente vista la popolarità del cloud presso utenti, operatori, sviluppatori e addetti ai lavori.
Non a caso, Red Hat ha annunciato in occasione del Summit, due soluzioni “as a service”.
La prima, CloudForms, è una soluzione IaaS per realizzare e gestire cloud privati e ibridi.
La seconda, OpenShift, è una soluzione PaaS per gli sviluppatori che fanno proprie le istanze open source e vogliono svincolarsi dai linguaggi o da piattaforme cloud predefinite in partenza.
Partiamo proprio da OpenShift. Si tratta di una soluzione che va in concorrenza con Windows Azure o VmWare, dalle quali si differenzia per un approccio più applicativo alla questione cloud.
L’attenzione infatti si sposta dalla creazione e gestione dei workload della macchina virtuale alla creazione e gestione delle applicazioni cloud, considerandone tutto il ciclo di vita.
Altro elemento differenziante è un approccio open allo sviluppo (e non poteva essere diversamente con Red Hat): “l’utente può scegliere il linguaggio, il framework di sviluppo, il cloud provider preferito. Non vogliamo legare l’utente a nessuna particolare tecnologia” ha spiegato Isaac Roth, PaaS Master di Red Hat.
A seconda della versione (OpenShift è rilasciato in tre differenti release) si potranno quindi usare da Java, a Php, da Python a Ruby, da MySql a MongoDb.
“OpenShift è basato sull’opensource – ha continuato Roth – per cui il codice di molti dei componenti di OpenShift è disponibile attraverso i normali meccanismi della distribuzione”. Attenzione: molti, non tutti. OpenShift non è infatti al 100% opensource. L’intenzione di Red Hat è di renderlo interamente opensource ma sui tempi di attuazione Roth non si è sbilanciato.
Come abbiamo accennato, OpenShift può usare diversi cloud provider (di default Amazon EC2 o un data center interno all’azienda). Per garantire l’interoperabilità, OpenShift si basa su Api standard che “garantiscono – ci ha spiegato il Cto di Red Hat Brian Stevens – il deployment su un’altra piattaforma cloud con semplici comandi in linea”.
Il deployment è facilitato dall’adozione del motore Git, già integrato nel kernel di Linux. “tramite Git è facile monitorare i cambiamenti del codice e gestire i progetti di sviluppo distribuito”, spiega Stevens.
OpenShift viene proposto in tre versioni differenti: Express, totalmente gratuita e che si appoggia ad Amazon (è necessario un account AWS); Flex, che supporta un ambiente di hosting dedicato e più framework e Power, l’offerta top di gamma e non ancora disponibile.
Mentre OpenShift si focalizza sul concetto di “Platform”, CloudForms punta sull’Infrastruttura.
CloudForms è un prodotto software per realizzare e gestire soluzioni cloud IaaS private e ibride: è costruito su oltre 60 progetti open source e viene distribuito in modalità completamente open.
Lo sviluppo di questo prodotto parte dalla consapevolezza che la complessità e la proliferazione di server virtuali rende sempre più difficile il lavoro dello staff It in relazione alla gestione delle policy, dei template e di diversi hypervisor. “Con CloudForms gli utenti possono gestire più facilmente complesse applicazioni, piuttosto che amministrare indipendentemente elevate quantità di server virtuali”, dicono in Red Hat.
CloudForms integra al suo interno tre funzionalità distinte: i servizi di infrastruttura, la capacità di gestire le risorse computazionali e un sistema di application lifecycle management.
Secondo quanto comunicato da Red Hat, CloudForm è in grado di creare cloud ibridi partendo da diverse risorse già presenti in azienda come ad esempio: server virtuali di vendor differenti (Red Hat o VmWare), server fisici tradizionali, cloud pubbliche (Amazon, Ibm).
CloudForms è oggi rilasciato in versione beta. Il rilascio definitivo è previsto nel corso di quest’anno.
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