Senza imballaggio il prodotto guadagna

Lush commercializza i propri cosmetici “nudi”, nel nome dell’ecologia. Denise Cumella, responsabile europea per la comunicazione, ci ha spiegato cosa sta dietro a tale scelta

Il problema dei rifiuti in Campania porta alla ribalta una questione cruciale: l’impatto ambientale degli imballaggi dei prodotti, che sui rifiuti urbani incidono in modo consistente. Oltre agli sporadici tentativi per rendere bio-compatibili involucri difficilmente smaltibili, l’industria produttrice potrebbe fare di più, limitando la dimensione e la quantità dell’imballaggio. La tendenza generale negli ultimi anni, invece, sembra paradossalmente quella della moltiplicazione dell’involucro inutile.
A volte è possibile agire in maniera opposta facendo leva sulle caratteristiche del prodotto commercializzato. È il caso di Lush, produttore di cosmetici naturali nato in Inghilterra nel 1995 e oggi presente nel mondo con circa 5.000 persone (90 in Italia) e 450 negozi monomarchio.
L’azienda utilizza meno della metà dell’imballaggio dei concorrenti e, in alcuni casi, non lo utilizza affatto. Denise Cumella, responsabile comunicazione Lush per l’Europa ci ha spiegato in quale contesto è nata tale scelta.

Lush vanta una forte caratterizzazione “eco”, (rispetto degli animali, scelta delle materie prime) e un’attenzione specifica sul problema del packaging. Cosa sta dietro a queste scelte?
Lush è stata fondata da persone vegetariane, in qualche caso rigorosissimi vegani, che hanno dato un’impronta precisa all’azienda sin dalla sua nascita. La produzione è basata esclusivamente su ingredienti naturali vegetali e i prodotti sono freschi e fatti a mano, senza conservanti e con periodi di scadenza simili a quelli dei prodotti alimentari, di cui condividono anche le modalità di distribuzione sul territorio. Vengono poi realizzati con modalità e utilizzo delle risorse del tutto artigianali – cosa particolare, date le dimensioni dell’azienda – puntando sul fatto che gran parte della produzione destinata a un paese viene fatta localmente (così avviene anche in Italia, nei laboratori di Peschiera Borromeo, ndr).
Lush, inoltre, non acquista materie prime da alcun fornitore che non garantisca di non effettuare in alcun modo test sugli animali. Ciò significa che non ci possiamo approvvigionare da nessuno dei principali fornitori della cosmesi, con la conseguenza che i nostri costi di produzione sono più alti.

Non mettendo in dubbio le motivazioni etiche, la scelta è stata certamente lungimirante dal punto di vista del marketing. Lo è ancora di più, di questi tempi, un dettaglio non trascurabile: quello del packaging. Di fatto, Lush ha risolto il problema lasciando in molti casi i prodotti “nudi” e facendo leva sul loro bell’aspetto. Come è stata realizzata questa innovazione?
L’idea è stata quella di rendere solidi i prodotti che tradizionalmente sono liquidi, come shampoo, bagnoschiuma, balsamo, olii da massaggio, deodoranti: eliminando i liquidi, oltre all’imballaggio, si evita la necessità di aggiungere conservanti. E’ una pratica di laboratorio, quasi di cucina, con ricette e ingredienti molto più simili a quelli delle nostre nonne.
Si ottiene indubbiamente un ottimo effetto scenografico, perché possono essere mostrati prodotti con forme e colori accattivanti e si sfrutta l’esperienza sensoriale del cliente, il buon impatto olfattivo degli ingredienti, liberi di spigionare tutte le proprie essenze, e l’esperienza tattile. Il prodotto è esposto “nudo” e per la consegna nei negozi viene utilizzato un sacchettino di carta riciclata, l’imballaggio minimo indispensabile per un trasporto sicuro e igienico.

È immaginabile che una pratica sostenibile come questa incida sui costi di ricerca e sviluppo, compensati forse in parte dalla diminuzione dei costi per l’approvvigionamento dell’imballaggio. Un’azienda investe in questa direzione se prevede vantaggi, anche in termini economici.
Innanzitutto si dovrebbe investire in questa direzione per senso di responsabilità. Siamo convinti che le aziende irresponsabili non otterranno nel lungo periodo la fedeltà del consumatore. Dal punto di vista economico, una scelta etica a 360° come la nostra, non solo relativa al packaging ma anche all’approvvigionamento socialmente responsabile e alla tutela delle risorse umane, non offre nel breve termine gli stessi margini di altre. Ma siamo ripagati dal fatto che i clienti ci sono fedeli nel lungo periodo. E l’andamento del nostro business lo conferma.

Vi sono altri esempi di pratiche simili alla vostra per la riduzione dell’imballaggio?
Nel nostro settore non mi risulta. Ci sono casi in cui si cerca di rendere più eco-sostenibile il tipo di imballaggio, utilizzando, per esempio, l’amido di mais al posto delle materie plastiche, ma noi stiamo facendo una cosa diversa, puntando sulla sua eliminazione. Prima di tutto è necessario ridurre al minimo l’imballaggio e, dove non si riesce a ridurlo, riutilizzarlo.
Soltanto in ultima istanza bisogna puntare su un packaging riciclabile. Questa non è, infatti, una soluzione sostenibile di lungo termine, perché comunque si tratta di materiale che va prodotto, trasportato e poi smaltito.

Cosa si potrebbe fare per incentivare le aziende a muoversi in questa direzione?
È evidente che non ci sono normative in atto relative al contenimento dell’imballaggio. In Italia, solo per citare un esempio, non è ancora vietato l’utilizzo dei sacchetti di plastica, cosa che è già realtà in Cina. Bisognerebbe prevedere incentivi fiscali basati sulla quantità di imballaggio prodotto. Con un nostro confetto di shampoo solido si possono effettuare 80 lavaggi, evitando di produrre, trasportare e smaltire tre bottigliette di shampoo da 250 ml. Un camion di shampoo solido equivale a 15 camion di prodotto liquido tradizionale. Ridurre l’imballaggio significa, quindi, incidere positivamente anche sull’inquinamento da automezzi.
Si parla da mesi del problema dei rifiuti in Campania ma non si è mai parlato della responsabilità di chi produce e immette sul mercato la quantità enorme di rifiuti costituita dagli involucri dei prodotti. Forse se ci fossero incentivi fiscali legati al volume di imballaggio utilizzato la situazione sarebbe diversa.

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