In un Libro bianco sulle Soa la chiave di lettura per adattarle alla realtà aziendale. Passato, presente e futuro della tecnologia con Marco Bozzetti, amministratore di Malabo.
La collaborazione tra il ClubTi di Milano, FidaInform, Accenture, Hp e Microsoft, con il patrocinio di Assolombarda, ha portato alla realizzazione di un Libro Bianco sulla Soa (Service oriented architecture), che ha visto impegnato per tre anni un gruppo di lavoro guidato da Marco Bozzetti.
Il volume offre una panoramica completa, tecnica e manageriale, del fenomeno Soa e dell’Enterprise architecture, con l’obiettivo di accrescere la cultura informatica presso i decisori delle imprese, senza il cui coinvolgimento questo processo non può ottenere validi risultati.
Abbiamo intervistato Marco Bozzetti, amministratore unico di Malabo e consulente di GeaLab e Club Ti Milano, per evidenziare i messaggi più importanti che stanno dietro a questa iniziativa.
«Ormai la Soa ha compito 10 anni – ha esordito Bozzetti -. La sua nascita è dovuta all’esigenza di far parlare i programmi tra di loro, ma questa architettura affonda le radici negli anni 70, con il Remote procedure Call (Rpc). Allora, su questa base Microsoft si è costruita tutti i suoi sistemi proprietari e sui quali poi ha creato le architetture di interoperabilità, come Com/Com+, Dcom, ActiveX fino ad arrivare alla nuova struttura .Net, che a questo punto ha applicato tutti gli standard richiesti da un approccio Soa. Dall’altra parte, si sono attivati l’ambiente Java e derivati, basati su standard internazionali, con il Distributed computing environment (Dce) e poi Corba.
In questo contesto, dopo la crisi degli inizi 90, un segnale di svolta è arrivato anche da Ibm, che è passata dal proprietario agli standard internazionali de iure».
Ci sono voluti quarant’anni per consentire al mondo dell’Ict di definire una modalità univoca e accettata da tutti, su come far parlare tra di loro due programmi software, indipendentemente da come sono stati scritti e dall’ambiente nel quale operano.
«Un altro filone concettuale tecnico che si inserisce nelle Soa – ha ripreso Bozzetti – è quello della programmazione a oggetti, al cui interno il Web service non è altro che un componente. Ma chi ha fatto i progetti e le architetture Soa, si è posto un obiettivo altrettanto ambizioso che riguarda il diretto coinvolgimento del top management, e questa è la parte lato business della Soa che non è stata ancora considerata seriamente in Italia. Sappiamo che uno dei gap che esiste da tempo tra il business e l’area It, è la non agilità di quest’ultima a rispondere velocemente alle necessità dell’azienda. Per cui uno degli obiettivi della Soa è di venire incontro a questa esigenza, introducendo il concetto di Business service, che non sono altro che la rimodulazione dei processi di business. Per cui se si fa una mappatura delle diverse linee di business, si scopre che ci sono attività che possono essere messe in comune. E questo è un grado di libertà in più, ma naturalmente servono le competenze per capire che cosa un’impresa deve fare, a livello processi, indipendentemente dalla tecnologia. Una volta che è riuscita a fotografare i propri processi e identificato al loro interno i vari Business service come moduli logici di ogni processo, si arriva a un Business process re-engineering, lo stesso che avevamo già introdotto con gli Erp. A questo proposito apro e chiudo una parentesi, in quanto va detto che tanti Erp sono falliti de facto nella percezione del vertice aziendale perché non è stato fatto prima il Bpr».
Quindi, la logica ideale, secondo Bozzetti, sarebbe che a ogni modulo, cioè a ogni Business service, si associ uno o più Web service. In concreto, idealmente si devono creare i mattoncini del “Lego” a livello dei servizi applicativi, ma si devono creare anche i moduli di Business service per realizzare il “Lego” dei processi.
Tutto questo, però, comporta che l’azienda abbia superato i mega problemi di una struttura a silos?
«In effetti da sempre sostengo – ha risposto Bozzetti – che il problema tecnico da superare sia solo il 20%, mentre il restante 80% è di natura organizzativa. Il problema dei silos è dovuto al fatto che sotto certi aspetti è più facile gestire un silos che un sistema integrato, però i silos oggi vengono a costare di più, perché non solo si devono duplicare le competenze, ma si ha anche una inconsistenza delle informazioni, in quanto si portano avanti tante informazioni che sono simili ma non uguali e contenute nei vari data base, per cui a questo punto si hanno grossi problemi di aggiornamento e quindi si arriva all’inconsistenza delle informazioni. E questo succede ancora nella maggior parte delle aziende italiane».
Quando oggi si parla di Ict governance, si parla di razionalizzare il sistema informativo, con l’obiettivo di ridurre i costi per renderlo più flessibile e agile. Ma va anche sottolineato che le aziende, comprese quelle più strutturate, in ambito It non hanno una chiara fotografia di quali sono i loro servizi informatici, su quali macchine sono e come intendono farli evolvere.
«Spesso c’è chi sa tutto sull’hardware ma non sa quali applicativi ci girano sopra e viceversa – ha proseguito Bozzetti -. Basta andare a vedere quante sono le aziende che hanno un report della direzione dei sistemi informativi verso le diverse line of business. Questo fa sì che molti vertici aziendali ritengano l’It un male necessario, e non riescono a dialogare con il responsabile. La speranza è che le cose cambino con le nuove generazioni di manager, perché sono nati nell’era digitale. Ritornando alle Soa, per la loro adozione ci deve essere un forte input da parte del top management, e già lo sforzo di fare una fotografia dell’It consente di individuare dei mattoncini, dei “lego” del processo a cui associare il lego dei moduli software che lo supportano».
Un ruolo importante nel contesto Soa viene giocato dal Business process management (Bpm). Quello che serve all’imprenditore è capire se riesce a gestire bene i processi e quali indicatori deve usare per comprendere come funziona un certo processo, se è redditizio o meno, dove ci sono delle aree di miglioramento.
E certi indicatori si possono avere solo a livello informatico, da qui l’importanza della gestione dei processi (Bpm) e del Business activity monitoring (Bam), che sono i due elementi che nei prossimi anni aiuteranno a comprendere di più la parte business della Soa, vista ormai più come Enterprise architecture. Queste tecniche naturalmente sono usate dalle grandi aziende, mentre latitano presso le medie e piccole.
Tuttavia, grazie alle logiche di as a service (Xaas) e di cloud computing, è possibile inserire direttamente nel sistema informatico una serie di servizi che sono tra loro interoperabili.
«Nell’ambito di questi servizi – conclude il manager – la cosa importante è che un progetto Soa venga inserito in un piano pluriennale da parte dell’area sistemi informativi, da cui si ricava una roadmap dell’evoluzione della Enterprise architecture aziendale, i cui primi risultati tangibili, però, devono evidenziarsi entro l’anno, per consentire di misurane i benefici. Naturalmente, in tutto questo si può attivare se c’è un forte commitment da parte dell’alta direzione. Una volta che l’Ict mette le basi dell’Enterprise architecture, poi ogni silos aziendale può muoversi come meglio crede, partendo dalle tecnologie e dagli standard di riferimento, passando poi a razionalizzare i data base per omogeneizzare i dati e poi si arriva alla modularità che significa Soa. Va, però, ricordato che quando si parla di Soa bisogna partire dai Business service, per cui è il business che deve essere informato e coinvolto nel processo».