Secondo uno studio Regus, nel nostro Paese l’82% delle aziende offre forme di autonomia ai propri dipendenti. Il principale freno resta la fiducia
La prassi del lavoro flessibile, inteso come possibilità da parte dei dipendenti di gestire in autonomia orari e luogo di lavoro (vi rientra il telelavoro), si è ormai imposta un po’ in tutto il mondo. Se fino a qualche anno fa questo privilegio, in genere invidiatissimo dai lavoratori, era appannaggio dei Paesi angolsassoni e delle grandi multinazionali (Usa in primis), ora si è fatto strada a livello mondiale e persino l’Italia risulta soprendentemente “evoluta”. Questo è ciò che emerge da un’indagine Regus realizzata lo scorso febbraio e che ha coinvolto 17mila aziende in 80 paesi.
Secondo lo studio, a livello mondiale ben quattro quinti delle aziende (circa l’81%) offrono ormai al loro personale forme di lavoro flessibile. Perché? In primo luogo perché molte si sono rese conto che ciò comporta una riduzione dei costi (è così per il 60% degli intervistati), per esempio attuando forme di desk sharing. Si calcola, infatti, che un “posto scrivania” in ufficio costi una cifra compresa tra i 4mila e gli 11mila dollari l’anno per dipendente, con i Paesi occidentali che si pongono in una media di 7mila dollari/anno.
Le aziende che hanno optato per la flessibilità si sono anche rese conto che in questo modo si incrementa la motivazione e la produttività dei dipendenti, oltre a migliorare l’equilibrio vita/lavoro e a ridurre le emissioni di Co2, per via dei minori spostamenti effettuati.
Ma c’è di più, perché secondo il 21% del campione il fatto di offrire flessibilità conferisce alle aziende un vantaggio competitivo nell’accaparrarsi i migliori talenti, anche perché l’assunzione in questo caso non è legata alla vicinanza territoriale.
Italia particolarmente evoluta
Ed ecco la sorpresa dell’Italia. I dati Regus sull’utilizzo di forme di lavoro flessibile collocano il nostro Paese molto vicino agli Usa, la patria di questo modello (utilizzato dall’85% delle aziende) e ci portano con un 82% al di sopra della media mondiale. Anche da noi è alta (58%) la percentuale di chi ritiene che la flessibilità comporti costi minori rispetto al lavoro fisso in ufficio. Per la verità sorprende anche il dato relativo alla Spagna, che si piazza al primo posto con l’88% di aziende che hanno adottato forme di flessibilità, seguita da Francia e Regno Unito con l’83% e “ultima” la Germania con il 76%.
“Il fatto che il lavoro flessibile sia diventato ormai la norma è sicuramente una buona notizia – ha commentato Mauro Mordini, Direttore Regus Italia, Malta e Israele – . Dalle aziende ai dipendenti, dalle famiglie all’intera società e anche all’ambiente, tutti quanti possono trarne vantaggio”.
Un privilegio solo per senior
Il privlilegio della flessibilità tuttavia è accordato preferibilmente a personale con una certa anzianità, anzi nel 40% dei casi “solamente” a impiegati senior (il 28% in Italia), un fatto legato alla minore fiducia che le aziende ripongono nel personale giovane o neoassunto.
Il principale problema che la flessibilità deve affrontare è difatti proprio il rapporto di fiducia tra l’azienda e il dipendente, dato che non può essere in questo caso esercitato un controllo fisico. Eppue basterebbe fissare precisi obiettivi e stabilire altettanto precise scadenze temporali.
“Basando il diritto alla flessibilità sul grado di anzianità del personale – ha aggiunto Mordini – alcune aziende perdono preziose opportunità, causando perfino l’allontanamento di nuovi e giovani talenti molto ambiti per l’azienda. Dopo che gli studi hanno dimostrato che consentendo un certo grado di flessibilità al personale la produttività aumenta, è deludente scoprire come le aziende lascino che le questioni di fiducia siano da ostacolo nell’offrire il lavoro flessibile a tutti i dipendenti. Tuttavia, poiché una grossa fetta ne riconosce i vantaggi pur non adottandolo ancora, possiamo aspettarci un’ulteriore crescita del lavoro flessibile nel corso del decennio”.