Tunisia: i social media accelerano le rivoluzioni?

Né Twitter, né Facebook, né Wikileaks: la ricerca di un’etichetta per i recenti avvenimenti nordafricani mette in evidenza che non c’è discontinuità tra on-line ed offline.

A chi viveva al di fuori dal piccolo Stato che fronteggia la Sicilia, Twitter ha fornito un posto in prima fila nel rovesciamento del corrotto governo. Molti si sono chiesti se sia stata la prima vera “Twitter Revolution”: a qualche giorno di distanza i commenttaori sembrano concordare: certo le reti sociali hanno aiutato a rovesciare il governo, ma Twitter non è stato l’unico artefice, come dettaglia Matew Ingram di GigaOm.

Ingram cita parecchie voci di Twitter: Evgeny Morozov (Foreign Policy), Jillian York (Harvard Berkman Center), Ethan Zuckerman (Global Voices), il teorico dei media Clay Shirky e Zeynep Tufekci (University of Maryland). Shirky avrebbe scritto che “nessuno pretende che i media sociali portino direttamente all’azione delle masse, ma certo aiutano a coordinarne le azioni”, mentre secondo Morozov, in Tunisia Twitter non avrebbe giocato un ruolo importante.

Tufekci si è chiesto perché debba esserci una linea di demarcazione tra attività online ed offline: “L’online fa parte del mondo d’oggi; la Rivoluzione francese fu solo una conseguenza della stampa?”. Sullo stesso filone, Ingram si chiede poi “se gli eventi in Polonia nel 1989 siano stati una rivoluzione telefonica”.

Certamente chi è stato direttamente coinvolto ritiene che l’importanza di Twitter sia stata fondamentale. Non c’è dubbio che Twitter abbia contribuito a diffondere le informazioni su quanto stava accadendo in Tunisia, come dimostrano tweets, video e altri media raccolti da Andy Carvin su National Public Radio. E Bechir Blagui, il tunisino che gestisce il sito Free Tunisia, ha detto a un blogger dell’Huffington Post che i social media sono stati fondamentali per il flusso di informazioni e per organizzare le manifestazioni, ma insieme a cellulari, messaggistica e siti web. “L’hanno chiamata la rivolta del gelsomino, ma avrebbero dovuto chiamarla la rivoluzione di Facebook”, dice Blagui togliendo Twitter dal primo piano. Peraltro, poiché uno degli elementi precedenti è uno dei famigerati cablogrammi trafugati, c’è chi l’ha chiamata “rivoluzione di wikileaks”.

Guardando fuori dai cablo e da Ingram, nel nome del sito di Assange si segnala anche la posizione di Muammar Gheddafi. Il leader libico, che all’uscita dei cablo aveva ringraziato Assange per aver mostrato al mondo l’ipocrisia Usa, ha detto che il testo su Ben Ali faceva parte di “bugie pubblicate su Wikileaks per creare caos”. E le azioni di Gheddafi intorno ai suoi confini sono sempre un’incognita.

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