Da un caso pratico, quello di Antares, una analisi per comprendere come coniugare tecnologie e normativa. Una tavola rotonda organizzata da Rivista Sicurezza, del nostro Gruppo editoriale.
La Legge 300/70, più conosciuta come “Statuto dei lavoratori”, è esplicita. All’articolo 4, infatti, si vieta “l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”.
Un diktat inequivocabile che, a cinquant’anni dalla sua emanazione, conserva immutato l’innegabile diritto di un lavoratore a non essere osservato o monitorato a distanza.
Allo stesso tempo, però, impedisce di sfruttare le moderne tecnologie per preservare l’incolumità dei lavoratori stessi, prevenire i crimini o risalire alle cause di un incidente.
Una situazione che, per molti aspetti, appare paradossale, poiché il giusto obiettivo della tutela personale, in molti casi, diventa un efficace strumento a vantaggio di chi commette azioni illegali.
Per capire quali siano le evoluzioni normative, sulla scorta delle nuove soluzioni tecnologiche, la Redazione di Rivista Sicurezza, appartenente al nostro gruppo editoriale, nelle scorse settimane ha organizzato una Tavola Rotonda coinvolgendo esperti di diversa estrazione – Luciano Brenna, consulente in tema di Security & Intelligence; Mauro Cassini, titolare di Umbra Control, azienda facente parte del network di installatori professionisti Hesa; Vincenzo Corradi, titolare di Antares, azienda specializzata in soluzioni informatiche a tutela dei dati; Giacomo Mosca: B2B Manager Italy Iomega Corporation, fornitore soluzioni di storage e di sicurezza di rete; Gianluca Pomante, avvocato esperto in tema di privacy; Vincenzo Scognamiglio, esperto informatico della Procura della Repubblica di Monza – Sezione Polizia Giudiziaria; Franco Valentini, titolare di Selea, azienda produttrice di telecamere – che, insieme, si sono confrontati su un tema di forte attualità: “Videosorveglianza, privacy e diritti dei lavoratori”.
Dati criptati, accessibili solo alle Forze dell’Ordine
Una recente pronuncia dell’Ispettorato del Lavoro di Milano ha autorizzato la registrazione e la conservazione di dati criptati in una modalità accessibile esclusivamente alle Forze dell’Ordine. Solo le forze di Polizia, su richiesta della Magistratura inquirente, possono, infatti, disporre della chiave di lettura.
L’ideatore di questa soluzione, avallata anche dalle principali organizzazioni sindacali, è Vincenzo Corradi, titolare di Antares: “Alla base della nostra piattaforma, protetta da un brevetto europeo identificato con il nome di “Protocollo Ant@res”, si trova un software in grado di criptare i dati attraverso una chiave asimmetrica RSA a 1024 bit, che modifica l’algoritmo di cifratura ogni secondo. Tutti i dati registrati, siano essi log di navigazione o immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza, sono quindi accessibili, esclusivamente, al detentore della chiave di de-criptazione. Quest’ultima, però, non è in possesso del datore di lavoro, che quindi non può conoscere i dati protetti. Al contrario la chiave viene depositata presso un Ente esterno che, solo su richiesta dell’Autorità Giudiziaria, la consegna agli organi di Polizia”.
Un’idea apparentemente semplice ma che, per essere validata da Enti sempre attenti a tutelare il diritto alla privacy personale e dei lavoratori, ha dovuto superare severe verifiche.
L’assenza di punti deboli ha permesso di ottenere anche una deroga ai tempi di detenzione delle immagini. La normativa sulla Privacy attualmente in vigore, infatti, consente di conservare i filmati solo per ventiquattr’ore.
Un limite temporale che, pur nel rispettato di tutti i diritti dei lavoratori, in molti casi si rivela troppo breve per consentire alle Forze dell’Ordine di acquisire i filmati.
Protocollo a bordo della telecamera
L’idea di Antares – per quanto innovativa e agevolmente utilizzabile nella gestione dei dati relativi alla navigazione Internet – soffriva però di un punto di debolezza nell’impiego per la videosorveglianza.
Il software di criptazione, infatti, veniva tipicamente installato sui server di registrazione. Ma questo rendeva le immagini teoricamente intercettabili e, quindi, visionabili in modo fraudolento nel tratto compreso tra il punto di ripresa e l’impianto di registrazione.
Un ostacolo che avrebbe potuto limitarne l’impiego. Da qui la scelta di sviluppare – insieme a un produttore di telecamere come Selea – un’apparecchiatura dotata di un processore in grado di supportare la criptazione nativa delle immagini riprese, tutelando così i diritti di ogni singolo lavoratore.
Una funzionalità sulla quale si è impegnato in prima persona Franco Valentini, titolare di Selea: “Per un’azienda come la nostra, specializzata nello sviluppo di hardware e software per i sistemi di videosorveglianza, l’implementazione del protocollo Ant@res non ha rappresentato una particolare difficoltà tecnologica. La maggior parte del tempo, però, è stata assorbita dalla necessità di far validare simili soluzioni e, soprattutto, di renderle facilmente identificabili. Per questa ragione tutte le nostre telecamere in grado di criptare nativamente le immagini sono dotate di un logo ben identificabile e di un un numero di codice che consente, con una verifica incrociata, di certificare l’originalità della telecamera stessa. In questo modo, chiunque venga ripreso da una simile telecamera, ha la certezza assoluta che le sue immagini potranno essere visionate solo a seguito di episodi particolarmente gravi”.
Una simile soluzione, però, aveva ancora un punto debole. In fase di installazione, infatti, è necessario verificare la correttezza dell’inquadratura e della messa a fuoco. Un’attività che, con un’apparecchiatura tradizionale, può essere fatta abbastanza agevolmente.
In questo caso, invece, consentirebbe a un installatore di non attivare realmente il protocollo di criptazione, rendendo così le immagini del tutto visibili.
Da qui l’idea di sviluppare e integrare un ulteriore software “intelligente”, capace di riconoscere solamente una speciale scacchiera di prova creata da Selea. “All’atto pratico – sintetizza Valentini – questo significa che all’istallazione è sufficiente posizionare tale scacchiera nell’area da riprendere, lasciando che la telecamera esegua in automatico le operazioni di regolazione e messa a fuoco. Il tutto senza che nessuno possa mai vedere le immagini reali”.
Un aiuto alle indagini giudiziarie
I primi ad apprezzare una simile innovazione sono gli specialisti della sicurezza e quanti debbono effettuare indagini.
Per questa ragione Luciano Brenna, consulente in tema di Security & Intelligence, ha salutato con piacere una simile innovazione: “Qualunque soluzione consenta di ampliare il raggio di azione dei sistemi di videosorveglianza e, soprattutto, di incrementare i tempi di detenzione delle immagini riprese, non può che essere benvenuta tra quanti operano nel nostro settore. Questo anche in considerazione del fatto che tutti vogliamo maggiore sicurezza, ma nessuno è disposto a sacrificare qualcosa, soprattutto quando si tratta di privacy. Se a questo aggiungiamo le decine di norme che ingessano l’attività di chi deve tutelare beni e persone, ben si comprende quanto sia difficile proteggersi nel rispetto della legge. Al punto che appare paradossale come, mentre in Italia le immagini possono essere detenute per un massimo di 24 ore, negli Stati Uniti simili informazioni devono essere conservate per un minimo di 10 giorni, che sale addirittura a 30 nel caso di riprese effettuate con sistemi digitali”.
Parlando di indagini, però, la voce più autorevole è quella di Vincenzo Scognamiglio, appartenente alle Forze dell’Ordine in servizio presso la Polizia Giudiziaria della Procura della Repubblica di Monza.
Anche per gli inquirenti, infatti, prolungare i tempi di conservazione delle immagini rappresenta un vantaggio significativo. Scognamiglio insiste però sull’importanza della qualità: “Accade spesso che le persone riprese non siano facilmente identificabili e questo offre un alibi fin troppo facile a un criminale. Per tale ragione è importante che qualunque protocollo, così come le telecamere utilizzate, non riduca la definizione, con il rischio di rendere inutili le prove raccolte”.
Il punto di vista dell’installatore
Qualche perplessità, anche su sistemi tanto innovativi, arriva invece da chi lavora ogni giorno sul campo e, quindi, si trova a diretto contatto con i clienti finali.
Mauro Cassini, titolare di Umbra Control, un’azienda del network di installatori professionisti Hesa, non nasconde una certa preoccupazione in relazione all’atteggiamento di chi dovrà acquistare una simile soluzione: “Si tratta di un’innovazione molto interessante, che potrebbe avere importanti impieghi soprattutto nell’ambito della Pubblica Amministrazione, sempre attenta a soluzioni che tutelino il diritto alla privacy. Temo, invece, che possa essere un po’ diverso l’approccio degli utenti privati che, tipicamente, vogliono sempre gestire le informazioni in prima persona. Emblematico, ad esempio, il caso di un dipendente infedele, che un’azienda cerca di individuare senza passare attraverso denunce pubbliche, che getterebbero un’ombra negativa sull’azienda stessa. Per questa ragione, in molti casi, i datori di lavoro preferiscono operare in deroga ad alcune leggi, pur di tutelare l’immagine aziendale”.
“In ogni caso – gli fa eco Scognamiglio – nella mia esperienza di inquirente, a fronte di eventi criminali ho sempre trovato la collaborazione dei possessori di sistemi di videosorveglianza. Anche se, per evitare il rischio di veder compromesse alcune prove, quando interveniamo preferiamo imporre direttamente il sequestro delle immagini. Una modalità operativa che tutela anche posizionamenti delle telecamere e tempi di registrazione non pienamente rispettosi delle norme sulla privacy”.
Proprio sugli aspetti legali è intervenuto Gianluca Pomante, avvocato esperto in tema di privacy: “Un simile protocollo è decisamente interessante, poiché riporta l’attenzione sul bene da tutelare. Non dobbiamo però dimenticare che, malgrado l’impiego di una simile soluzione di criptazione, le immagini continuano a rappresentare un dato personale e, per tale ragione, è necessario assumere alcune precauzioni, soprattutto nella definizione dell’incarico assegnato a chi detiene la chiave di de-criptazione. Infatti, in assenza di indicazioni specifiche e chiaramente comunicate, l’accesso alle immagini potrebbe essere richiesto anche da un avvocato difensore o, comunque, da chiunque sia stato ripreso da una telecamera”.
L’analisi di Pomante va oltre, per ricordare come, in ogni caso, “la responsabilità del titolare dell’azienda nella quale vengono installate le telecamere rimane immutata dal punto di vista normativo, così come un’eventuale trasmissione delle immagini, fuori dal perimetro aziendale, deve essere correttamente disciplinata. Un’ultima nota è legata alla possibilità, in ogni caso, di richiedere al Garante della Privacy di prolungare i tempi di detenzione di quanto filmato. Se adeguatamente motivata, una simile opportunità viene sempre concessa. Ma le aziende preferiscono non operare in questa direzione, poiché temono eventuali controlli. In realtà, è necessario ricordare che la videosorveglianza rappresenta uno strumento di eccezionale portata, ma occorre definirne correttamente i confini e le modalità di impiego, per tutelare adeguatamente se stessi da eventuali atti criminali, ma anche per evitare il rischio di sanzioni”.
Dove conservo i dati?
La possibilità di conservare le immagini più a lungo, unita alla proliferazione di telecamere, provoca un immancabile aumento dei dati da conservare e, quindi, della necessità di maggior spazio nell’ambito dello storage. Un’esigenza che, con i tradizionali sistemi di memorizzazione, risultava spesso compressa.
Al contrario, grazie alle nuove soluzioni tecnologiche, come spiega il B2B Manager di Iomega Giacomo Mosca, i problemi di spazio sono ormai ampiamente superati, poiché le immagini possono essere raccolte in nuove soluzioni a elevata capacità: “La vera sfida è rappresentata dalla corretta gestione degli accessi, che può essere controllata con specifiche soluzioni professionali. Oltre al semplice storage, infatti, è necessario proteggere le immagini anche a fronte di eventuali incidenti, casuali o provocati volontariamente. In questo ambito il Cloud Computing, benché ancora poco apprezzato in Italia, rappresenta la nuova frontiera. Contemporaneamente, però, numerose aziende stanno utilizzando un nostro servizio che prevede la registrazione locale, con una duplicazione in tempo reale in una località geograficamente lontana e adeguatamente protetta. Permettendo così di recuperare le informazioni necessarie a fronte di specifiche esigenze”.
Via libera da parte dell’Ispettorato del Lavoro di Milano
E’ dello scorso 23 maggio la notizia che vede l’Ispettorato del Lavoro di Milano concedere ad Antares il permesso di disporre di telecamere di videosorveglianza “puntate direttamente” sul lavoratore nello svolgimento delle sue mansioni. Naturalmente, il motivo della ripresa dovrà essere motivato dalla necessità di protezione del bene aziendale e/o della sicurezza delle persone.
Quanto conseguito ha una valenza assoluta, in quanto è stato giudicato non in conflitto con l’Art. 4 L.300/70 dello Statuto dei Lavoratori.
A indurre gli Ispettori ad approvare la richiesta di Antares, è stata la particolareggiata descrizione del funzionamento del Protocollo, unico in grado di rispettare la Privacy dei Lavoratori e, nel contempo, di tutelare i beni e la sicurezza aziendale.